di Eric Lonergan (M&G Investments) Gestore del team Multi-Asset di M&G Investments.

Perché serve una nuova economia

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Quest’anno sul blog Alphaville del Financial Times, Matthew Klein ha sostenuto in modo come sempre incisivo e ben argomentato la necessità di abbandonare una pietra angolare dell’attuale struttura di politica macroeconomica: il NAIRU. Questo acronimo inelegante (che sta per Non-Accelerating Inflation Rate of Unemployment) indica il tasso di disoccupazione compatibile con un’inflazione stabile e fa parte di una serie di concetti simili alla base della politica macroeconomica. Il “divario di produzione”, che misura la capacità non utilizzata in un’economia, tenta di svolgere una funzione simile a livello aggregato dell’economia in generale: se è pari a zero, possiamo aspettarci un’inflazione stabile, mentre se c’è carenza di capacità, l’inflazione aumenta.

Il consenso attuale, sensato e pragmatico, è che questi concetti siano strumenti pedagogici utili e rappresentino un modo ragionevole di strutturare le politiche. Il problema è che il divario di produzione e il NAIRU sono considerati estremamente difficili da misurare: forse troppo per avere una qualsivoglia utilità. È una posizione forse accettabile per chi ancora crede nei divari di produzione e nei NAIRU, esemplificata da Simon Wren-Lewis nella sua risposta a Klein: il NAIRU e la produzione esistono, sono molto difficili da misurare, ma l’impianto è sostanzialmente accurato e può essere utile. Peraltro individua modi intelligenti di affrontare il problema di misurazione; ad esempio, suggerisce giustamente che il Board della Federal Reserve statunitense dovrebbe aspettare che l’inflazione aumenti e che il superamento del NAIRU sia stato accertato, prima di intervenire in senso decisamente restrittivo sui tassi. Jo Michel ha delineato un punto di vista altrettanto critico e sfumato, che include anche link utili al suo scambio con Klein sui punti d’accordo e di dissenso.

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Ho sposato questa linea di pensiero generale sulla macroeconomia fin da quando ho iniziato a studiare economia all’università. Uno dei primi a influenzare la mia personale percezione economica è stato il professor Ken Mayhew a Oxford, uno dei maggiori economisti del lavoro del Regno Unito, nonché co-autore sia di Richard Layard che di Steven Nickell, cui dobbiamo l’introduzione del NAIRU nel 1986.

L’obiettivo della gestione della domanda, attraverso strumenti fiscali o monetari, è raggiungere il livello di spesa aggregata compatibile con un’economia che utilizza in pieno le proprie risorse, situazione indicata da un divario di produzione pari a zero. Il concetto di disoccupazione compatibile con un’inflazione stabile è per certi versi più sottile, dal momento che si concentra su caratteristiche istituzionali del mercato del lavoro – ridurre la disoccupazione non dipende solo dalla domanda aggregata: anche aumentare l’efficienza del mercato, attraverso una riduzione dei costi di ricerca o un migliore abbinamento di ruoli e competenze, può abbassare il tasso di disoccupazione senza produrre effetti negativi, come un’inflazione più elevata.

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Economia, il NAIRU è inutile

Come gran parte della macroeconomia moderna, tutta questa struttura nasce con i problemi di stagflazione degli anni Settanta e con il modello della curva di Phillips degli anni Sessanta, cui fa riferimento Wren-Lewis e di cui io stesso mi sono già occupatoin precedenza.

Ma questo è anche il suo punto debole. Vorrei suggerire una descrizione completamente diversa del funzionamento dell’economia attuale, in netto contrasto con la struttura che ha prevalso negli anni Settanta e nei primi anni Ottanta. Nel mondo che sto per descrivere, il NAIRU è inutile, anzi, altamente fuorviante: e non perché non si può misurare, ma perché non esiste. Credo che questa sia una posizione molto più forte di quelle assunte finora anche dai critici più accesi al di fuori della scuola austriaca. E voglio spingermi anche oltre: le misure politiche basate sul NAIRU si riveleranno dannose.

Dunque, cominciamo. Partiamo dal presupposto che i mercati dei prodotti siano altamente concorrenziali, nel senso classico che le aziende sono “price taker” (ovvero subiscono i prezzi). Presumiamo che lo stesso valga per i mercati del lavoro. Per chiarezza, il mio assunto non è che i prezzi e i salari siano simmetricamente “flessibili” (quel modello è empiricamente falso), ma solo che le imprese e gli individui non hanno potere di mercato, in particolare il potere di determinare i rispettivi prezzi e salari. Questa non è una posizione estrema, nel senso che ci saranno ovviamente delle “trattative”, anche nei rapporti non sindacalizzati fra lavoratore e datore di lavoro, in cui i costi di formazione ecc. trovano riflesso in un “patto” fra le parti. Ma non è questo il punto: ipotizzo soltanto che il processo di fissazione dei salari in generale sia determinato dalla domanda e offerta di una certa combinazione di competenze.

Ora, come si inseriscono le aspettative in questa visione dell’economia? Presumo anche che sia valida la definizione di Greenspan per la stabilità dei prezzi: l’inflazione è sufficientemente bassa e lo è stata abbastanza a lungo perché le persone (“agenti economici”) non ci facciano più caso. Per maggiore precisione, immagino un mondo in cui quasi tutte le informazioni si concentrano nella variazione del prezzo relativo e non del prezzo aggregato. In altre parole, quando i salari per una data combinazione di competenze oscillano, oppure i prezzi dei beni e servizi oscillano, non otteniamo informazioni sull’inflazione aggregata, ma dal segnale di prezzo traiamo una conclusione sulla nostra situazione specifica. La variazione di prezzi e salari contiene informazioni sul prezzo relativo e non ci sono “aspettative di inflazione” pertinenti a livello aggregato. Se chiedi a qualcuno cosa si aspetta in termini di inflazione, la risposta sarà “non lo so, non mi interessa”.

Nell’economia che descrivo, la gente semplicemente non ha “aspettative di inflazione (né si fa rappresentare da entità come i sindacati, che invece hanno tali aspettative), ma sa perfettamente quando la domanda delle sue competenze (o dei suoi prodotti) è forte o scarsa.

Devo dire anche molto chiaramente che non è un mondo senza recessioni, collassi o carenze di domanda: al contrario, non ho nessun problema con l’idea che le imprese e i lavoratori siano price taker e che possano esserci recessioni brutali. Accettare che i mercati del lavoro e dei prodotti siano concorrenziali non significa assolutamente presumere che trovino sempre una “compensazione”. Le rigidità, i problemi di bilancio e di coordinamento, gli errori, lo spirito imprenditoriale, le condizioni di credito sono tutte potenziali fonti di recessione o depressione che non spariscono, ma esistono nel mio modello.

Ok, quindi che ruolo può avere il NAIRU nel mondo che sto descrivendo? Nessuno. Ciò che succede nella mia visione dell’economia quando la disoccupazione scende a livelli estremamente bassi è relativamente imprevedibile, ma non particolarmente pericoloso e non richiede alcuna risposta politica. Mi sta bene lasciare che sia il sistema a trovare la soluzione. Può volerci tempo per superare una carenza di certe figure professionali, magari servirà più formazione o più migrazione, oppure le imprese dovranno sostituire il lavoro col capitale. Non mi interessa: il sistema mercato può risolvere il problema, e i governanti intelligenti possono contribuire con qualche misura a livello micro. È possibile che i margini di profitto vengano compressi e si crei un processo lungo di minore redditività del capitale, minori investimenti e alla fine minore domanda di lavoro.

È anche un mondo in cui la variazione di alcuni prezzi di mercato, con le commodity come esempio lampante, e i cicli di credito settoriali sono la fonte principale di una moderata varianza ciclica. L’ha suggerito argutamente Frances Coppola. Ritengo altamente plausibile che, a partire dalla crisi finanziaria, gli shock settoriali idiosincratici, ad esempio nelle auto, in alcuni segmenti del comparto immobiliare e nelle commodity, abbiano inciso sull’economia statunitense molto più della politica monetaria.

E questa è la norma

Quello che descrivo è un mondo in cui la politica monetaria e, nello specifico, il livello dei tassi d’interesse a un giorno, in realtà conta poco. Altri segnali di prezzo relativo, shock settoriali e cicli di credito si risolvono da soli. E le condizioni di credito dipendono molto più dal comportamento del sistema finanziario e dalla domanda di credito del settore privato. I tassi d’interesse a un giorno sono relativamente marginali. Le oscillazioni del premio al rischio sul mercato e il quadro normativo di riferimento sono fattori dominanti nella definizione dei prezzi del credito, ma anche degli strumenti finanziari.

Ancora una volta, è importante sottolineare che non è una visione del mondo ingenuamente panglossiana in cui il mercato risolve tutto: al contrario, è un mondo in cui si verificano shock aggregati e correlati di ampie proporzioni, e la crisi finanziaria e l’austerità nell’Eurozona ne sono due esempi recenti. Sostengo da tempo la necessità di adottare politiche di emergenza anticicliche profonde ed efficaci.

Sono sempre più convinto che sia questo l’impianto da utilizzare per rivedere la nostra struttura economica: la teoria macro può essere a sua volta dipendente dal regime e dalla struttura. Lo schema degli anni Settanta – di aspettative razionali, NAIRU e in ultima analisi banche centrali che fissano il tasso d’interesse e gestiscono la domanda – è un regime adatto per alcune parti del mondo (forse economie come il Sudafrica, il Brasile e la Turchia, con condizioni iniziali di tassi d’interesse più elevati), ma non più per i Paesi sviluppati.

So bene che, per certi versi, sto andando troppo lontano. Ci sono notevoli differenze istituzionali nel mondo sviluppato, ma sono sempre più del parere che il modello standard di aspettative di inflazione/divario di produzione/NAIRU sia profondamente viziato. I concetti sono utili strumenti pedagogici, ma data la microstruttura attuale del mondo avanzato, rischiano di rivelarsi decisamente ridondanti o, peggio ancora, di ostacolo alla definizione delle politiche.

Le banche centrali devono forse accettare che le variazioni dei tassi d’interesse a un giorno in realtà non contano più granché. In assenza di shock di domanda particolarmente significativi, non avranno niente da fare e, quando sarà richiesto il loro intervento, dovranno trovare nuovi strumenti. Periodicamente si presenta un disperato bisogno di stimoli aggressivi alla domanda, come ad esempio adesso nell’Eurozona. La cosa su cui io e Simon Wren-Lewis siamo completamente d’accordo è che abbiamo bisogno di banche centrali indipendenti, in condizione di adottare misure politiche anticicliche adeguate. Il mio timore è che possa rivelarsi necessario un sovvertimento più profondo dell’intera struttura concettuale per arrivarci.

Abbiamo fatto molta strada nell’ultimo anno sui mercati dell’inflazione. A questo punto, però, c’è da chiedersi se vedremo un nuovo arretramento del carovita una volta superato il periodo di picco degli effetti base del petrolio, a metà del 2017, o se l’accelerazione e il tema della reflazione si possano preservare. Almeno negli Stati Uniti, mi sembra che il mercato del lavoro e, ancora di più, i salari siano avviati a mantenere il buon ritmo attuale. Considerando le notevoli differenze in termini di debito delle famiglie fra Stati Uniti e Regno Unito, direi che la Fed è già dietro la curva e potrebbe avere difficoltà a riallinearsi. La domanda cruciale, secondo me, è sempre se questa marea che sta salendo negli Stati Uniti riuscirà a sollevare tutte le barche o se l’inflazione europea e il segmento lungo del mercato britannico sprofonderanno di nuovo dai livelli attuali.