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Lavoro, il modello da seguire è quello tedesco

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ROMA (WSI) – La lunga attesa per la ripresa dell’esame al Senato del secondo atto del Jobs Act e la pausa estiva hanno contributo a rilanciare il dibattito sulle riforme del lavoro come se il nostro Paese non si fosse puntualmente cimentato in questo esercizio, con costanza, negli ultimi anni.

Sono state infatti ben quattro le riforme del mercato del lavoro approvare nel corso degli ultimi quattro anni e ora ci apprestiamo a una nuova fase ravvivata dalle dichiarazioni del Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, che dopo essersi inizialmente interessato del modello spagnolo ha proprio ieri cambiato radicalmente prospettiva richiamando la Germania come modello da seguire e a cui ispirarsi.

Ci è parso pertanto utile raccogliere, per i nostri lettori e per un dibattito pubblico che ancora procede a colpi di slogan e vuoti annunci, i lavori pubblicati da ADAPT University Press nel corso dell’ultime decennio a partire dalla riforma Biagi che, per un tratto significativo, ha proceduto in parallelo con le note riforme Hartz del lavoro per poi rimanere bloccata anche a causa di veti e contrapposizioni ideologiche che non hanno invece mai rallentato il processo riformatore tedesco ispirato dai principi di collaborazione tra capitale e lavoro e partecipazione dei lavoratori a cui si sono affiancati interventi significativi sulla contrattazione aziendale, la riduzione dell’orario di lavoro per gestire la crisi, lo staff leasing, il salario minimo e provvedimenti storici come il celebre sistema duale tedesco di formazione che ha consentito, tramite l’apprendistato scolastico, un contenimento della disoccupazione giovanile e alti livelli di competenza e produttività della forza lavoro tedesca.

[ARTICLEIMAGE] Scopriremo nei prossimi giorni se si tratta dell’ennesimo annuncio di una politica che vive di tweet e si brucia nello spazio di tempo di una conferenza stampa o se, invece, questa ennesima dichiarazione possa rappresentare una svolta per far decollare un tema complesso come quello delle riforme del lavoro che non può essere, ancora una volta, circoscritto all’annoso quanto inconcludente tema dell’articolo 18 e della libertà d licenziare. Questo è, del resto, il principale insegnamento della lezione tedesca: un Paese solo pochi anni fa indicato come il grande malato d’Europa che è riuscito in pochi a rilanciare imprese e occupazione tramite il rinnovamento del sistema di relazioni industriali, un apparato burocratico efficiente, un sistema di transizione scuola lavoro mirato agli interessi dei giovani e delle imprese e una logica di partenariato tra imprese che ha visto nello staff leasing un perno della specializzazione produttiva e della catena di creazione di valore.

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Senza lavoro dimezzati in meno di 10 anni e tasso di disoccupazione piu’ basso d’Europa secondo gli ultimi dati Eurostat riferiti a luglio: la Germania grazie alla riforma Hartz del mercato del lavoro varata tra il 2003 e il 2005, ha affrontato meglio degli altri Paesi la crisi economica riuscendo a ampliare la base occupazionale. Il Consiglio Matteo Renzi ha nuovamente citato il mercato del lavoro tedesco definendolo ”un modello e non un nemico” e sottolineato la necessita’ di rendere il nostro sistema piu’ simile a quello di Berlino. Gli hanno fatto eco l’ex ministro Tiziano Treu e Filippo Taddei tra gli altri e anche Susanna Camusso ha mostrato segnali di apertura.

In Italia il tasso di disoccupazione e’ aumentato tra il 2007 e il 2013 dal 6,1% al 12,2% (dati Eurostat) mentre in Germania e’ diminuito nello stesso periodo dall’8,7% al 5,3% (ma era al 10,5% nel 2004). A luglio 2014 il tasso dei senza lavoro in Germania era al 4,9%, il piu’ basso in Europa. La diminuzione della disoccupazione tedesca e’ stata possibile grazie alla riforma Hartz, dal nome dell’ex consigliere d’amministrazione di Volkswagen che, sotto il governo Schroeder, diede vita fra il 2003 e il 2005 a una serie di provvedimenti sul mercato del lavoro nella Germania post-unificazione alle prese con circa cinque milioni di disoccupati. In quattro provvedimenti, la Germania ha rilanciato il suo welfare attraverso sussidi di disoccupazione universali, estesi cioe’ a tutti, purche’ si dimostri di essere in ricerca attiva di lavoro: i disoccupati vengono sollecitati con proposte di lavoro che, se non accettate, decurtano progressivamente l’indennita’.

Oltre a buoni per la formazione, job center e agenzie interinali, Hartz ha introdotto i famosi, nel bene e nel male, ‘Minijob’, contratti di lavoro precari, poco tassati, senza diritto a pensione ne’ assicurazione sanitaria; i Midjob, contratti atipici a 400 euro massimi; i finanziamenti a microimprese autonome e un maggior sostegno per gli over-50 che perdono il lavoro. Infine, nella ‘Hartz IV’, e’ stato previsto un reddito di cittadinanza anche a chi non trova lavoro dopo aver completato gli studi, con contributi per la casa, la famiglia e i figli, un’assicurazione sanitaria.

Nel mercato quindi convivono l’alta flessibilita’ del lavoro (su modello americano) con il modello di welfare nord-europeo (sostegno a chi dimostra di non trovare lavoro) ma con regole molto stringenti (come i lavori socialmente utili pagati un euro o un euro e mezzo l’ora per non perdere il sussidio di disoccupazione). Un mix che ha facilitato le assunzioni portando il costo del lavoro, che era cronicamente alto, a livelli cosi’ competitivi da rendere la Germania il secondo esportatore mondiale dopo la Cina (a volte superando Pechino). Ma che hanno anche indebolito i consumi, al punto da spingere i partner Ue e persino gli Usa, con l’amministrazione Obama, a chiedere a Berlino di sostenere la domanda interna pagando di piu’ il lavoro: una richiesta che ha trovato risposta nell’introduzione del salario minimo quest’anno, anche se c’e’ chi dubita sia una misura sufficiente.