Economia

Globalizzazione e capitalismo, la classe media sta morendo?

Questa notizia è stata scritta più di un anno fa old news

Di Raffaele Perfetto e Rosanna Melillo

In finanza nulla si crea e nulla si distrugge ma tutto si trasferisce. Negli ultimi giorni di luglio la classifica dei paperoni di Forbes ha incoronato Jeff Bezos come l’uomo più ricco del mondo con un patrimonio stimato di poco sopra i novanta miliardi di dollari, togliendo lo scettro a Bill Gates. Il modello di business Amazon ha messo in difficoltà molti “brick and mortar”, punti vendita in “mattone e calcestruzzo. Macy’s, con un valore di mercato su i 24 miliardi di dollari nel 2015, adesso oscilla intorno ai 7 miliardi e prevede entro l’anno di chiudere 68 stores. Anche J.C. Penney, che a Marzo ne aveva già chiusi 138, ha visto le sue azioni crollare dai 10 dollari di gennaio ai 5 dollari degli ultimi giorni. E non sono gli unici nel settore.

Senza dubbio Bezos è stato bravo con il suo modello di business a vedere l’opportunità di fare soldi: Amazon è cresciuta come valore di mercato dai circa 50 miliardi di dollari nel 2010 ai circa 450 miliardi del 2017 (quasi 10 volte in 7 anni). Come anticipato da Bloomberg a Luglio, c’è già chi pensa ad azioni dell’antitrust americana: ci ritornano in mente i tempi di Rockefeller e della Standard Oil smembrata per la sua posizione di monopolio.

Tutto si trasferisce

Piketty, nel suo lavoro pubblicato nel 2013, ci mostra che negli ultimi 30 anni la distribuzione del capitale si sia polarizzata: un trasferimento verso l’alto dei patrimoni a scapito della middle class. Nel 2013 la Federal Reserve indicava che il 72 % del patrimonio americano era nelle mani del 10 % della popolazione e che, tra il 1977 e il 2007, i più ricchi erano riusciti a beneficiare del 75 % della crescita avvenuta negli States.

Qualche giorno fa La CNBC ha riportato che il coefficiente Gini (che misura la disuguaglianza) degli Stati Uniti ormai è lo stesso del Kenya, mentre Miami come lo Zimbawe e Los Angeles come lo Sri Lanka.

Attenzione, la disuguaglianza non è un dramma per la società, anzi. Il problema nasce quando ce n’è troppa. La World Bank nel suo report ci mostra che globalmente la situazione sta migliorando: il trend mondiale del coefficiente Gini è positivo.

Ma non è tutto oro quello che luccica

Osservando i dati (fig. 1), si vede che la disuguaglianza all’interno di uno stesso Paese tende ad aumentare (come osservava l’economista Thomas Piketty), mentre tra un Paese e l’altro diminuisce. Secondo la World Bank, la caduta a livello globale della disuguaglianza è legata ad un fenomeno di convervgenza dei redditi tra i Paesi e cioè ad un miglioramento dei redditi in Cina e India.

Disuguaglianza di reddito nel mondo, dati Banca Mondiale
La disuguaglianza di reddito nel mondo, dati Banca Mondiale

In uno stesso Paese la ricchezza, semplicemente si trasferisce verso l’alto. Questo accade secondo Piketty, quando i tassi di rendimento del capitale sono superiori ai tassi di crescita economica. In altre parole, quando la finanza cresce più velocemente dell’economia. Chi ha soldi avrà sempre più soldi. Secondo l’economista, il problema tuttavia è di tipo “strutturale”: la finanza speculativa, quella “cattiva” per intenderci, ha un ruolo secondario. Crescendo il capitale più velocemente dell’economia reale, ne consegue che non si potrà mai accumulare ricchezza quanto chi è già ricco. In breve, come scrive Piketty: “Qualunque carriera non potrà mai eguagliare un buon matrimonio”.

Sarà la classe media a risentire dei cicli economici, essendo i suoi redditi legati all’economia: i ricchi sono in una botte di ferro.

L’economista ci dice – ed è poco rassicurante – che le uniche fasi in cui le disuguaglianze si sono ridotte storicamente è stato in seguito alle guerre mondiali. Una triste constatazione.

Perché il benessere della classe media è importante

Già nell’antica Grecia Euripide affermava: “Tre sono le classi sociali: i ricchi, dannosi e che vogliono sempre di più; quelli che non hanno e difettano di mezzi di sussistenza, pericolosi perché si lasciano prendere dall’invidia e illusi dalle parole dei malvagi patroni, lanciano perfide frecciate contro gli abbienti. Delle tre parti quella che sta in mezzo salva le città, custodendone l’ordine da esse stabilito”. La via da percorrere era indicata a chiare lettere nella concordia ordinum.

Il rapporto della Banca Mondiale ci dice più o meno la stessa cosa: la riduzione delle inegualità favorisce la stabilità politica e la coesione sociale, allontanando i rischi di estremismo e di fragilità istituzionale.

Globalizzazione o no? I Big Data le nuove sette sorelle

Possiamo negare che la globalizzazione abbia avuto effetti positivi? No, non possiamo. Non possiamo negare le conquiste raggiunte riguardo al commercio, la mobilità, la connettività, i traguardi in campo medico, energetico, la riduzione generale della povertà.

Riportiamo qualche dato: un recente studio della società di consulenza Boston Consulting Group (BCG) ci dice che dal 2005 il numero di persone che hanno attraversato i confini nazionali sono passati da circa cinquecento milioni a 1.2 miliardi, mentre il numero di utenti internet è cresciuto da 900.000 a tre miliardi.

La generazione dei dati rappresenta il nuovo “oro nero”.

Dai “Big Oil” ai “Big Data”: se compariamo la classifica del valore di mercato delle società americane quotate, abbiamo nelle prime 10 posizioni le “GAFA”: Google, Amazon, Facebook, Apple e solo Exxon come compagnia petrolifera. Nel 2006 c’erano tre compagnie petrolifere (Exxon, Chevron, Conoco) tra le prime dieci, mentre alcune delle GAFA, non erano nemmeno in fase di start up.

Possiamo negare che la globalizzazione abbia avuto effetti negativi? No, non possiamo. La narrativa giornalistica è focalizzata da mesi su tematiche legate a protezionismo, nazionalismo, perdita dei posti di lavoro, ineguaglianza.

La stessa Boston Consulting riporta che, solo nel 2016, il numero di reclami presentati al WTO contro misure protettive discriminatorie ha superato i 500, contro le 300 misure di liberalizzazione introdotte. La fase degli accordi multilaterali sembra essere momentaneamente accantonata. Emergono isituti finanziari come la Asian Investment Infrastructure Bank e la New Development Bank a motore cinese, in competizione con le preesistenti istituzioni finanziarie occidentali per l’accesso ai capitali. Anche i fondi sovrani crescono: nel 2016 maneggiavano un portafoglio dal valore di circa 7 trilioni di dollari contro i circa 4 trilioni maneggiati dai fondi privati.

Se la globalizzazione è riuscita a trasferire ricchezze dai paesi sviluppati, non è riuscita però a trasferirne i “valori”. Alcuni stati sono ancora lontani dall’essere economie di mercato, faticano a “condividere questi valori” di libertà, sviluppo e crescita. Ci vorrà tempo.

Non è possibile giocare una partita se sullo stesso campo non si rispettano le stesse regole. Ricordiamoci i costanti attacchi da parte dell’amministrazione USA nei confronti della Cina, accusandola di dumping e manipolazione di valuta per rendere le sue aziende più competitive, nei fatti “sussidiandole”. Risultati come Brexit, destre europee, protezionismo “made in US”, e misure nazionaliste, non sono casualità ma sono il “prodotto o l’effetto” di un sistema che ha inviato e invia chiari segnali.

Trascurarli potrebbe essere rischioso. I disordini di questi giorni in Virginia-Charlottesville hanno motivazioni anche di carattere socio economico.

G-Local a tutto Gas

Le cose possono migliorare, certo, e abbiamo qualche timido segnale come l’apertura da parte della Cina verso gli Stati Uniti per quanto riguarda i mercati di carne e riso e, forse, gas ed LNG.

Su questo ultimo punto gli Stati Uniti si candidano a diventare il terzo Paese in termini di capacità di export dopo Qatar e Australia: aumenteranno di sei volte la loro capacità nei prossimi 3 anni. Il Far East è un mercato in forte espansione.

Vedremo come gli USA sapranno conciliare le spinte protezioniste con la necessità di export energetico. Non sarà facile trovare il punto di ottimo tra pressioni politiche interne legate alla disuguaglianza, e fattori esterni legati alla geopolitica e ai cambiamenti tecnologici.

La storia ci dirà se questo è il momento giusto oppure dovremmo attendere una nuova leadership all’orizzonte che sia all’altezza di queste sfide.

Concludiamo parafrasando Churchill sul capitalismo: “è la peggiore forma di gestione economica, a parte tutte le altre sperimentate finora”.

Guadagno di reddito in % dal 1988 al 2008 dati da BCG
Guadagno di reddito in % dal 1988 al 2008 dati da Boston Consulting Group


Gli autori possono essere contatti su Twitter agli indirizzi @Raff_Perf e @Mel_Ros_