di Didier Saint-George (Carmignac) Managing director e Membro del Comitato Investimenti di Carmignac

Rischio inflazione è ancora sottovalutato

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Forti dell’esperienza del 2016 in cui ogni minaccia politica si è tradotta con un passo avanti verso il rafforzamento del sostegno fiscale e la conferma del sostegno monetario delle Banche Centrali, i mercati continuano a deliziarsi della ripresa ciclica più solida dalla fine della grande crisi finanziaria. Il ciclo statunitense è già in fase avanzata, ma il “Trumpismo” fa sperare che possa perdurare ancora. Il ritardo dell’Europa e del Giappone assicura loro un margine di miglioramento ancora importante.  Certo gli investitori anglosassoni “per sicurezza” si tengono a distanza dall’Europa. Infatti, la percezione attuale del rischio politico in Francia supera sorprendentemente quella del 1981, prima  dell’inaspettata elezione di François Mitterrand. Questi timori spiegano l’ostinata sottoperformance dei mercati europei e stanno innescando l’aumento del premio per il rischio sui Titoli di Stato francesi.  Inoltre, gli indicatori tecnici del mercato iniziano a dare i primi segnali di affanno. 

Tuttavia, sostenuti dalla realtà economica, i mercati azionari giustamente, anche se faticosamente nel caso dell’Europa, continuano a scalare il muro dei timori. Forse, abbandonandosi al sollievo e ammaliati dall’agenda politica, continuano a ignorare uno dei rischi più concreti per il 2017: le crescenti tensioni inflazionistiche (vedere la Carmignac’s Note di gennaio “2017: attenti a quello che desiderate”).

Quando l’economia va bene…

Il “personaggio” Trump continua a suscitare grande perplessità presso gli osservatori. Ma in realtà la sua “imprevedibilità” è un rischio temperato dalle modalità operative del neopresidente, molto meno inefficienti di quanto non sembri. La diffusione quotidiana di messaggi brevi e superficiali permette infatti  una grande facilità nella comunicazione, sempre meno presa alla lettera. Inoltre, l’inesperienza di Donald Trump su tematiche rilevanti lo ha costretto a circondarsi, come fece Ronald Reagan a suo tempo, di professionisti estremamente abili.

Anche la sua visione economica è tutt’altro che imprevedibile: Donald Trump persegue una forma abbastanza primitiva ma coerente di mercantilismo, che fa dello Stato l’attore determinante nel servire gli interessi dell’economia americana e del risanamento della bilancia commerciale. Con questa premessa, l’orientamento delle iniziative economiche diventa abbastanza leggibile, per gli Stati Uniti e per i loro partner commerciali. Il loro impatto peraltro sarà contenuto dal controllo che esercita un Congresso decisamente conservatore sulle principali questioni fiscali e di bilancio.

Ne consegue per gli americani una frattura indubbiamente profonda sul piano sociale, ma anche un’ondata di entusiasmo pressoché unanime sul piano economico: l’indicatore di fiducia dei consumatori dal 9 novembre punta decisamente verso l’alto. Ma, dato ancora più significativo per gli investimenti, l’indice di ottimismo delle aziende di medie dimensioni dopo la vittoria di Donald Trump si è impennato raggiungendo i livelli più alti dal 2004.

A conferma del ritorno degli “animal spirits”, i risultati delle aziende statunitensi nell’ultimo trimestre 2016 hanno segnato un rialzo medio del 5%, una performance che nei due terzi dei casi supera le previsioni degli analisti.

In Europa è sorprendente che le scadenze politiche cruciali del 2017 non pregiudichino la ripresa del ciclo economico: l’indice PMI dei direttori degli acquisti dell’Eurozona ha smentito ancora una volta le previsioni, prevalentemente pessimistiche, segnando un rialzo di 1,6 punti in febbraio a quota 56, un livello che in Europa non si raggiungeva da aprile 2011. Gli analisti di conseguenza continuano a correggere le stime sugli utili aziendali del 2017, attualmente in aumento del 15%. Se per ora l’incertezza politica impedisce ai mercati europei di accogliere degnamente il ritorno di una congiuntura economica più favorevole, il superamento senza intoppi di questo delicato momento entro pochi mesi potrebbe dare il via a un vigoroso recupero dei mercati azionari e dell’euro (a maggior ragione se le vittorie alle urne premieranno i programmi economici più significativi).

La minaccia fantasma

Non possiamo chiudere gli occhi di fronte al rischio legato alle elezioni in Europa. E’ difficile comprendere perché il vento del populismo che ha investito la scena politica mondiale da più di un anno debba fermarsi per magia ai confini dell’Eurozona. La ripartizione estremamente disuguale dei vantaggi della globalizzazione tra le economie sviluppate ha aperto le porte al protezionismo sovrano, spalancate poi dalla pressione migratoria. Qualora il dibattito pre-elettorale dovesse focalizzarsi principalmente sulle tematiche identitarie e istintivamente protezionistiche, l’analisi delle conseguenze economiche di ogni programma passerebbe in secondo piano, aprendo la strada a proposte demagogiche e distruttrici di ricchezza per tutti.

L’elezione di Donald Trump è stata trasgressiva, eppure favorevole all’economia americana (per ora). Ma questo fenomeno non è applicabile ai paesi europei. Quando si è a capo della prima economia mondiale, l’attuazione di un programma all’insegna del nazionalismo economico può essere imposta con la forza ai partner commerciali (almeno per un certo tempo), anche se questa politica a lungo andare rischia di creare gravi problemi. Viceversa, nessun paese europeo oggi, nemmeno la Germania, può permettersi il lusso dell’isolamento economico in un’Europa frammentata. Auguriamoci che la scelta di un suicidio economico sull’altare di una pseudo sovranità non sia ancora maggioritaria in Francia, né in altri paesi europei. I giorni che precedono il primo scrutinio dovranno essere gestiti con prudenza. Le probabilità di uno shock sono per ora basse, ma la posta politica in gioco è alta.

Il rischio inflazionistico è ancora sottovalutato

L’accelerazione dei segnali inflazionistici, forse perché non siamo ancora pronti a riconoscerli, continua a essere ampiamente ignorata, sia dalle Banche Centrali sia dai mercati obbligazionari (vedere la Carmignac’s Note di gennaio). Eppure, il tasso annuo di aumento dei prezzi al consumo negli Stati Uniti è cresciuto ulteriormente passando dal 2,07% al 2,5%, principalmente a causa dell’aumento del costo dei trasporti. Nell’Eurozona l’inflazione in gennaio è salita dall’1,1% all’1,8%.

La tesi secondo la quale il recente aumento dell’inflazione sarebbe il risultato dell’effetto base, transitorio e destinato rapidamente a esaurirsi, non ci convince. Al contrario, l’aumento del costo dell’energia e dei generi alimentari, logicamente, si trasmette in ritardo sull’insieme dei prezzi. In gennaio negli Stati Uniti il tasso d’inflazione al netto dei generi alimentari e dell’energia ha già raggiunto il 2,27%. E per ora l’effetto dell’aumento tendenziale degli stipendi si è fatto sentire solo in misura lieve. Se non fosse per la percezione del rischio politico in Europa che comprime i rendimenti dei Titoli di Stato rifugio e tiene in allarme le Banche Centrali, riteniamo che i tassi a dieci anni degli Stati Uniti (oggi a 2,46%) e della Germania (oggi a 0,30%) sarebbero ben più alti. Guardare oltre il rischio politico attuale in Europa comporta necessariamente l’adozione di una duration modificata molto prudente ai tassi di interesse dei principali paesi sviluppati. Abbiamo già posizionato i nostri portafogli in tal senso.

Per concludere, il ciclo negli Stati Uniti è sicuramente già in fase avanzata e il rischio politico in Europa non è una chimera. Ma da inizio anno il clima generale di scetticismo economico e lo spauracchio populista in Francia e nei Paesi Bassi hanno reso molti investitori più cauti nei confronti dei mercati  azionari, in particolare europei. Questo atteggiamento timoroso riguardo a questa asset class è piuttosto rassicurante dal punto di vista tecnico, tanto più che non tiene conto della possibilità che la minaccia politica si dissolva lasciando più spazio a una ripresa ciclica ancora timida in Europa. Ma sottovaluta il rischio per i mercati obbligazionari circa la probabile persistenza (secondo noi) delle tensioni inflazionistiche.

Strategia di investimento

Azioni

I mercati azionari hanno iniziato l’anno con un trend nettamente positivo. Tutte le aree geografiche hanno segnato un rialzo, anche se l’Europa è in ritardo per via del clima politico incerto, nonostante i dati macro e microeconomici positivi. La struttura di portafoglio rimane tuttora selettiva ed equilibrata, con un tasso di esposizione vicino ai massimi consentiti. “Selettiva” perché abbiamo investito in società in grado di beneficiare dell’accelerazione del ciclo economico ma i cui fondamentali sono solidi, come ASML Holdings, società produttrice di impianti per la produzione di semiconduttori, nella quale abbiamo aperto una posizione di recente.

La società è esposta al ciclo economico ma gode di una buona visibilità grazie alla posizione leader e al bilancio solido. “Equilibrata” grazie all’apertura di posizioni complementari rispetto alla tematica della reflazione, come dimostrano i due titoli introdotti di recente nella strategia azionaria globale: la società statunitense di videogiochi Activision Blizzard, il cui cambio di modello aziendale non è ancora ben recepito dal mercato (fatturato più regolare e meno legato al lancio di prodotti di punta).

Infine, la gestione dei rischi resta in primo piano nella nostra strategia azionaria globale, in parallelo con un posizionamento costruttivo sui mercati. Le posizioni nelle miniere d’oro hanno segnato forti rialzi da inizio anno e continuano a controbilanciare il rischio globale del portafoglio.

Obbligazioni

Benché nell’insieme dei paesi sviluppati l’inflazione sia ulteriormente aumentata, i tassi nominali lunghi sono rimasti relativamente stabili. Siamo ancora convinti che le previsioni inflazionistiche degli investitori siano sottostimate. Riteniamo infatti che l’aumento dei prezzi sia più generalizzato e durevole di un semplice effetto transitorio dovuto alla ripresa dei prezzi del petrolio. Di conseguenza, abbiamo aperto alcune posizioni nei Titoli di Stato USA indicizzati all’inflazione per ridurre il rischio della strategia obbligazionaria, tutelandoci allo stesso tempo dall’accelerazione dell’inflazione. Abbiamo infine realizzato alcuni arbitraggi nell’esposizione ai debiti emergenti, liquidando la posizione sui tassi polacchi e aprendo una posizione sell sui tassi ungheresi.

Nell’universo del debito emergente si delinea una netta dicotomia tra i paesi importatori di materie prime da un lato, come l’Ungheria, con un’inflazione in rapido aumento e rendimenti obbligazionari ancora molto bassi,  e dall’altro i paesi esportatori di materie prime dall’altro, il cui debito offre rendimenti elevati e l’inflazione è in netto calo, come nel caso del Brasile, prima posizione nel debito emergente, dove l’inflazione è scesa sotto il 5,5% e la Banca Centrale ha avviato un ciclo aggressivo di riduzione con due tagli di 75 punti base del tasso di riferimento da inizio anno.

Valute

Il dollaro da inizio anno ha alternato fasi di ribasso e di rialzo senza che sia emersa una tendenza chiara. Questo andamento conferma il nostro scenario secondo il quale il consensus nettamente positivo sul dollaro limita il potenziale di ulteriore apprezzamento del biglietto verde. Di conseguenza, la nostra strategia valutaria ha gradualmente rafforzato l’esposizione all’euro, a scapito dell’USD. In previsione delle prossime scadenze elettorali in Europa, abbiamo privilegiato l’apertura di posizioni in valute rifugio, come il franco svizzero e lo yen, per gestire il rischio globale dei portafogli. Sottolineiamo infine il perdurare del rimbalzo delle valute emergenti, del quale approfittiamo attraverso posizioni in valute locali senza copertura del rischio di cambio, come nel caso del Brasile.