Economia

Lo strano caso dell’Italia e dello scudo anti-spread

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Il Tpi (Transmission protection instrument), lo scudo anti-spread lanciato dalla Bce nella riunione del 20 luglio scorso non ha chiarito se, quando e come l’Italia potrà essere salvata economicamente da Bruxelles nel momento del bisogno. Questo ha portato spread e Btp a schizzare rapidamente verso l’alto, specie dopo che Draghi si è dimesso e le incognite sul futuro del Bel Paese si sono moltiplicate. Gli interessi pagati dai titoli di Stato italiani a 10 anni hanno addirittura superato quelli della Grecia. E così il differenziale con gli interessi richiesti a Bund tedeschi di pari durata, il temuto spread, galoppa vicino alla soglia dei 240 punti, con il Btp a 10 anni che viaggia sul 3,2%, di poco sopra al 2,9% del decennale greco. Ma torniamo al tanto annunciato scudo anti-spread.

Cos’è lo scudo anti-spread

Questo strumento sarà un’aggiunta all’insieme di cassetta degli attrezzi di Bruxelles e potrà essere attivato per contrastare dinamiche di mercato ingiustificate e disordinate, che rappresentano una seria minaccia alla politica monetaria nell’area dell’euro. In questo modo, consentirà al consiglio direttivo di adempiere in modo più efficace al suo mandato di stabilità dei prezzi. Fatto salvo il rispetto dei criteri stabiliti, l’Eurosistema sarà in grado di effettuare acquisti sul mercato secondario di titoli emessi in giurisdizioni che subiscono un deterioramento delle condizioni di finanziamento non giustificato dai fondamentali specifici del paese, per contrastare i rischi per il meccanismo di trasmissione nella misura necessaria.

Il Tpi è davvero uno scudo capace di proteggere l’Italia?

Fin dall’inizio la presidente della Bce, Christine Lagarde, ha chiamato il Tpi “strumento contro la frammentazione dell’area euro” non potendo, per ovvi motivi, parlare di uno scudo anti-spread salva-Btp o salva-Italia. Secondo gli analisti di Barclays, “il Tpi al momento non può essere attivato per blindare gli asset italiani dalle pressioni del mercato”. Il motivo? Stando a quanto detto sopra, Barclays fa notare che il fatto che “il deterioramento non debba essere dovuto ai fondamentali specifici di un paese, di fatto esclude i bond italiani, dunque i Btp in generale, dagli acquisti, in un momento in cui l’Italia fa fronte tra l’altro a una incertezza politica destinata a durare”.

La banca britannica specifica a tal proposito che “noi consideriamo l’incertezza politica alla stregua di un fondamentale specifico di un paese”.  E che “comunque, anche in caso di una interpretazione meno rigida, l’aumento dei tassi italiani continuerà a essere veloce mentre la Bce proseguirà il percorso di normalizzazione della politica monetaria, e al contempo continuerà a esserci incertezza politica. Di conseguenza l’asticella per l’attivazione del Tpi sarà ancora più alta”. Insomma, per Barclays lo scudo della Bce, almeno all’Italia, servirebbe davvero a poco, in quanto innanzitutto non può essere attivato.

Inoltre, non è chiaro neanche quando la Bce potrebbe attivare il Tpi per salvare economicamente l’Italia qualora ne avesse bisogno. Secondo un’analisi di Aegon AM, la banca centrale non vorrà attivare il nuovo strumento nel bel mezzo del caos elettorale dei prossimi mesi. Un’altra domanda importante è: quale livello di spread si dovrà raggiungere perché la Bce si preoccupi dell’effettiva trasmissione della sua politica monetaria? La riunione di emergenza del mese scorso, quando il rendimento del decennale italiano ha superato il 4%, ci dà qualche indicazione, ma tenendo conto dei prossimi rialzi della Bce, il livello del rendimento che porterà all’attivazione dovrebbe aumentare nel tempo.

Il Tpi fa tornare alla ribalta il debito pubblico dell’Italia

Ricordiamo che il Tpi è uno strumento senza limitazioni, ma la sua attivazione sarà possibile solo se il paese di cui ne avrà bisogno rispetterà quattro condizioni:

  1. Le regole fiscali dell’Unione europea;
  2. L’assenza di gravi squilibri macroeconomici;
  3. La sostenibilità fiscale, dunque sostenibilità della traiettoria del debito;
  4. La presenza di politiche macroeconomiche solide e sostenibili.

Con le quattro condizioni del Tpi, i mercati ricominciano a puntare i riflettori sul debito pubblico europeo, e in particolare quello italiano. Da parte nostra si potrebbe ribattere a ragione (soprattutto prima della crisi di governo) che le deteriorate prospettive economiche dipendono da fattori esterni (a partire dagli effetti della guerra in Ucraina) più che dalle debolezze strutturali della nostra economia. Più in generale, per affrontare le conseguenze economico-sociali della pandemia, tutti i Paesi che hanno potuto (ovvero quelli più ricchi) hanno non solo optato per politiche monetarie fortemente espansive, ma anche per un inevitabile incremento della spesa pubblica. Di conseguenza il debito pubblico sul Pil ha sforato per la prima volta a livello mondiale la soglia del 100%. Nell’Ue la media è passata da circa il 79% nel 2019 a quasi il 90% l’anno scorso, con alcuni Paesi a livelli altissimi (Grecia al 207%, Italia al 159%, Portogallo al 131%, Spagna al 120% e Francia al 116%, mentre la Germania si mantiene ancora ben sotto il 100%, attestandosi al 73%).

Concentrandoci sull’Italia, il grafico qui sotto mostra l’evoluzione del rapporto debito/Pil stimata dal Governo, con una tendenza piuttosto lineare di discesa. Come scrive in uno studio Mazziero Research, “tali stime saranno difficilmente raggiungibili, in quanto implicano una crescita del 3,1% per quest’anno e 2,4, 1,8 e 1,5% per il prossimo triennio 2023-2025, misure ormai sorpassate alla luce della crisi energetica legata al conflitto Russia-Ucraina”.

Rapporto debito/Pil in risalita in tutte le grandi economie

Ricordiamo che prima che i tassi di interesse scendessero, un rapporto debito pubblico sul Pil del 60% era considerato il massimo sostenibile e il 100% sembrava scandalosamente alto. L’Unione europea ha sancito questo rapporto al 60% nel suo cosiddetto patto di stabilità, limitando il debito al 60% e il deficit al 3% del Pil per tutti gli stati che utilizzano l’euro. L’Ue, che in passato ha osservato questi limiti solo saltuariamente, ora si è piegata alla realtà e li ha sospesi fino al 2023.

Il rapporto tra debito pubblico e Pil è salito alle stelle soprattutto nelle grandi economie avanzate. Negli Stati Uniti, tale rapporto ha raggiunto il 133% nel 2021, secondo le stime del World Economic Outlook Report, ed è in aumento dal 128% nel 2020 e dal 107% nel 2019.

Il primato in termini di debito in rapporto al Pil va però al Giappone, dove il debito pubblico è salito al 257% del Pil nel 2021.Del resto, il paese ha sfidato per anni le regole del debito convenzionali a causa dell’elevata propensione del pubblico a risparmiare e a incanalare questi risparmi in obbligazioni nazionali.