Dall’estate del 2016 l’economia globale attraversa una fase di crescita moderata ma costante, tuttavia l’inflazione ritarda ancora a surriscaldarsi nelle economie industrializzate. Diversi economisti e la Federal Reserve sono fermamente convinti che l’inflazione, merito anche dei grossi tagli alle tasse dell’amministrazione Trump, sia destinata a crescere nettamente di livello a partire da quest’anno. Ma ci sono almeno sei ragioni valide per cui il fenomeno non è destinato a verificarsi nell’attuale contesto economico.
Il vice presidente della banca centrale statunitense Stanley Fisher ha citato il calo progressivo del tasso di disoccupazione che finirà prima o poi per portare a un aumento dei salari. Anche se così fosse, tuttavia, un incremento delle buste paga non sarebbe sufficiente a pagare i debiti accumulati in America, specie dai cittadini più giovani, e nemmeno a spingere i prezzi di beni e servizi in rialzo.
L’altra teoria su cui si basano le argomentazioni di Fisher poggia le sue basi sulla tesi della Curva di Phillips. Secondo la teoria storicamente c’è sempre stato un rapporto inversamente proporzionale tra tassi di disoccupazione e tassi di inflazione. Un calo della percentuale di persone senza un lavoro dovrebbe portare dunque inevitabilmente a un aumento dei prezzi al consumo. A marzo dell’anno scorso la presidente uscente della Fed Janet Yellen ha affermato che “la Curva di Phillips è ancora in vita”.
Prima della recessione del 1973-1975 l’illustre economista Milton Friedman riuscì a prevedere con successo che avremmo assistito a un incremento contemporaneo di disoccupazione e inflazione. Come ricorda Wikipedia “negli ultimi anni la “pendenza” della Curva di Phillips è diminuita e sono cresciuti i dubbi sull’utilità” di questo metodo di previsione dell’inflazione. Detto questo, la teoria rimane quella a cui fa affidamento la grande maggioranza delle banche centrali.
Alcuni economisti sperano poi che la maxi riforma fiscale che porta la firma di Trump porti a un rimpatrio di capitali e a un incremento delle spese in conto capitale da parte delle grandi aziende americane. In un articolo intitolato Survival Tactics for a Hypervalued Market John Hussman scrive che
“tenuto conto degli utili trimestrali da record e il costo del denaro ai minimi storici non sono bastati ad alimentare gli investimenti netti interni in Usa e che i vantaggi fiscali societari precedenti sono stati quasi interamente spesi in dividendi e piani di acquisto di azioni proprie, non c’è una ragione valida per aspettarsi un incremento duraturo della spesa in conto capitale“.
Un altro dei fattori tra i più citati dagli economisti convinti che gli Usa assisteranno a una reflazione è quello dell’indebolimento del dollaro. L’idea di fondo vuole che con un calo della valuta si ottenga un rincaro di beni e materie prime, specie quelli importati, è semplicemente sbagliata, come dimostra l’andamento su base annuale dell’indice del dollaro e dell’indice PCE (quello delle spese personali).
La sesta e ultima ragione che viene citata fa riferimento alla velocità del denaro, che – in graduale crescita – dovrebbe indicare che i prezzi al consumo sono pronti a risalire (vedi tweet riportato più sotto). La verità però è che se si guarda al trend a lungo termine si può facilmente smentire questa teoria. Il rimbalzo visto ultimamente non è minimamente paragonabile al calo costante visto negli ultimi venti anni (vedi grafico in fondo).
Secondo l’economista professore della New York University (NYU) Nouriel Roubini se uno shock è temporaneo le banche centrali non dovrebbero intervenire, bensì dovrebbero apportare una normalizzazione della loro politica monetaria, perché lo shock a un certo punto finirà per esaurirsi e l’inflazione risalirà naturalmente.