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Default in Sudamerica, la prossima vittima è il Venezuela

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ROMA (WSI) – Il copione sembra di quelli già visti e rivisti. Un Paese ricchissimo per le materie prime che rischia di finire gambe all’aria. Una serie di investitori navigati che vedono un’opportunità nell’alto rendimento che offrono i titoli di Stato. Le agenzie di rating che predicano la fine imminente, qualche politico che rassicura e in mezzo i risparmiatori che non sanno a che santo votarsi.

Accade in Venezuela, il Paese guidato da Nicolas Maduro che siede sui più grandi giacimenti petroliferi al mondo: già oggi, secondo i dati Sace, il settore degli idrocarburi costituisce il 90% delle esportazioni e la metà delle entrate fiscali per le casse statali. In questo contesto, però, il Prodotto interno lordo è atteso a una violenta contrazione per il 2014 (-3,5%), l’inflazione galoppa a cifre da capogiro (oltre il 60% dal 40% del 2013).

Il Paese ricco di petrolio è povero d’ogni altro genere di risorsa. E con il greggio sotto quota 100 dollari, in Venezuela è emerso un bisogno di biglietti verdi enorme: servono per pagare tutto quanto bisogna importare, alimentari in primis. Il bolivar, valuta ufficiale, intanto si svaluta a ritmi vertiginosi. Se il cambio ufficiale è poco sopra 6 bolivar, al mercato nero già fiorente un dollaro viene cambiato per quasi 100 bolivar.

L’attenzione internazionale si è intensificata quando, lo scorso 16 settembre, Standard&Poor’s ha declassato il rating sovrano del paese a CCC+, abbassandolo di un “notch” (grado) dal precedente B- e mantenendo un outlook negativo. Si tratta del giudizio più basso tra quelli “speculativi”. Il taglio è stato spiegato con il continuo deterioramento economico del paese; la carenza di liquidità in valuta forte ha causato una persistente carenza di beni di prima necessità e forniture per le imprese locali, limitando la capacità produttiva.

Le riserve valutarie sono stimate a meno di 21 miliardi di dollari, il minimo degli ultimi undici anni, e sono destinate ad assottigliarsi di nuovo. Secondo l’agenzia di rating, il Pil venezuelano calerà del 3,5% quest’anno e l’inflazione supererà il 63%.

In questo scenario, i fondi “avvoltoi” (copyright di Christina Kirchner, presidente in Argentina che ha ancora la grana Tango-bond da risolvere)
si stanno muovendo perché ad oggi i titoli governativi di Caracas offrono in media il 15,7%, secondo i calcoli di Bloomberg, e sono al top di rendimento tra i Paesi in via di sviluppo.

Ancor meglio, i bond corporate delle società petrolifere possedute dallo Stato sono i più a buon mercato, tra quelli denominati in dollari, nel mondo intero. La convinzione di fondi come Callaway, amministrato da Daniel Freifeld, è che il Venezuela abbia abbastanza soldi per onorare i suoi impegni nel breve termine, anche se le riserve in valuta estera sono ai minimi da oltre un decennio e l’economia è vista alla peggior contrazione dal 2009. “La storia vera è che c’è un sacco di panico lì”, spiega Freifeld a Bloomberg. “Tutti stanno scappando. Ci sono rischi? Certo, ma non al livello che la gente crede”.

Il calcolo degli hedge fund è infatti duplice. Questi investitori speculativi – oltre a cogliere il rendimento nell’immediato – scommettono anche sul fatto che il Venezuela, che ha 21,5 miliardi di dollari di riserve valutarie, possa comunque risultare un investimento attraente in virtù della ricchezza petrolifera, che è stimata essere la maggiore al mondo. Anche in default, infatti, sarebbe possibile recuperare una parte dell’investimento, quel tanto che basta per giustificare il rischio che si prende adesso: secondo David Spegel di Bnp Paribas nella ristrutturazione di un titolo governativo del genere si possono recuperare 65 cent sul dollaro.

I bond venezuelani al 2027 hanno trattato ieri sotto 70 cent. Che la situazione sia tesissima si vede però anche dai Cds, i contratti stipulati per assicurarsi dal rischio di fallimento di un emittente, schizzati in area 1.600 punti in questi giorni dal – pur ragguardevole – livello di 900 punti prima dell’estate.

La prova del nove è attesa in ottobre, quando scadono due diverse emissioni governative per un totale di 4,5 miliardi di dollari (8 e 28 sono le date interessate). Secondo molti osservatori, sarà il momento cruciale: Caracas pagherà o meno? La discussione, anche interna, è cresciuta quando l’economista Ricardo Hausmann (da Harvard, il 5 settembre) ha messo in dubbio la scelta del presidente Maduro di pagare gli interessi ai detentori dei bond nel momento in cui la scarsa disponibilità di valuta forte (dollari) ha accentuato i problemi relativi all’approvvigionamento di beni di prima necessità come la carta igienica o il latte. Per di più, potrebbe così metter da parte risorse sufficienti a pagare il conto ancora in sospeso delle importazioni, che si aggirerebbe sui 7 miliardi.

Sul fronte di chi sostiene la necessità di pagare ci sono invece le grandi banche d’affari. Che come spesso accade non lo fanno per puro onore degli impegni, ma perché sono fortemente esposte sul Paese. Bank of America, in una ricerca ad hoc per i suoi clienti firmata dal senior economist Francisco Rodriguez, smorza infatti i toni allarmistici: “L’idea che un Paese in cui un’azienda statale (Petroleos del Venezuela, ndr) esporta 85 miliardi l’anno possa avere difficoltà a pagare 4,5 miliardi pare forzata. Questo dato di fatto rende le possibilità di default di ottobre prossime allo zero”. Questa rappresenta – speigano gli analisti – anche una sorta di polizza per Caracas: a nessuno degli “gnomi” globali conviene nell’immediato un Venezuela a gambe all’aria.

Il contenuto di questo articolo, pubblicato da La Repubblica – che ringraziamo – esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

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