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Roosevelt non ci riuscì, ora ci prova lo scout italiano

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ROMA (WSI) – Non c’è alcun dubbio che l’Italia stia attraversando una fase di recessione e di deflazione e non c’è del pari dubbio che la stessa fase la stiano attraversando quasi tutti gli altri Paesi membri dell’Unione europea, in particolare la Francia e la Germania per citare i due principali: cala il Pil, aumenta il deficit, languono esportazioni e importazioni intraeuropee, sono fermi consumi e investimenti. Del resto fenomeni analoghi si manifestano perfino in Cina e in Brasile, il che accentua il carattere mondiale della crisi.

Il nostro presidente del Consiglio non sembra dare molta importanza a questi fenomeni. Punta sulle riforme istituzionali: Senato, Regioni e Province, legge elettorale, giustizia civile e Sblocca Italia. E punta soprattutto sull’Europa, ancora dominata da una politica rigorista che lui vuole capovolgere.

L’appuntamento culminante si prevede per il 30 agosto quando Renzi parlerà nella sua veste di presidente pro tempore del Consiglio europeo. Parlerà cioè con i rappresentanti degli altri Stati nazionali, nei quali risiede tuttora il potere di governare l’Ue, alla faccia degli altri organi di questa strana Confederazione composta da 28 membri, 18 dei quali hanno una moneta comune.

Renzi ha parlato a lungo nei giorni scorsi con Napolitano e con Draghi. Napolitano lo consiglia e lo appoggia, non si ha notizia d’alcuna critica salvo l’invito a non usare se non in casi estremi toni ultimativi. Del colloquio con Draghi, durato oltre due ore nella casa di campagna del presidente della Bce, si conosce soltanto una sobria versione di Renzi che è notevolmente positiva.

Draghi non parla con i “media”, soprattutto con quelli italiani. Alcune sue tesi sull’Europa le aveva indicate in una pubblica comunicazione d’una settimana fa, dalla quale risultava – per quanto di pertinenza all’Italia – l’esortazione a privilegiare le riforme economiche su quelle istituzionali e – per quanto riguardava tutti gli Stati aderenti all’Ue – ad affrontare alcune importanti cessioni di sovranità all’Unione in materia di politica economica.

Nel colloquio con Renzi parrebbe – secondo la versione del Nostro – che su quest’ultimo tasto i due abbiano sorvolato; sulle riforme invece sono stati d’accordo. Draghi non ha detto nulla; evidentemente quando è in vacanza in campagna preferisce andare a caccia di farfalle non sotto l’arco di Tito ma a Città della Pieve e dintorni.

Una cosa però è certa e su questo il presidente della Bce era stato particolarmente facondo la scorsa settimana: l’Europa rischia di affondare sotto il peso della deflazione, ormai presente in tutto il continente. I prezzi diminuiscono, la domanda diminuisce, l’occupazione si restringe.

Contro la deflazione Draghi darà battaglia, cominciando a quanto pare a settembre, con misure anche “non convenzionali” e cioè lo sconto non solo di titoli pubblici ma anche di obbligazioni emesse da imprese che vantano crediti verso le pubbliche amministrazioni e verso la propria clientela; obbligazioni naturalmente garantite dai rispettivi debitori. E poi un’immissione di liquidità in favore delle banche purché esse la reinvestano in buona parte sulla clientela. La premessa dalla quale Draghi parte (così sembra) è che la predetta clientela, cioè le imprese manifatturiere e di servizi qualificati, reinvesta la liquidità che gli arriva. Del resto la scuola ci insegna che la deflazione si combatte così.

Qui però c’è un aspetto che forse è sfuggito all’attenzione dei più: la deflazione è un fenomeno estremamente pericoloso ma non va confuso con la depressione. Spesso vanno insieme, ma talvolta no. Quella del 1929 per esempio non fu un’accoppiata deflazione-depressione, soprattutto negli Usa. Non c’era deflazione, la liquidità non mancava ma non era utilizzata a dovere; i prezzi dei beni e dei servizi non diminuiva, ma la domanda mancava. Bisogna consultare Keynes per capir bene la differenza tra questi fenomeni e anche John Kenneth Galbraiht nel suo Il Grande Crollo. Non c’era deflazione in Usa, ma depressione. Oggi in Europa e in Italia i due fenomeni sono appaiati ma noi, il nostro governo, la Bce, le istituzioni dell’Europa confederata e soprattutto i possessori di capitale si propongono di battere la deflazione ma guardano con palese distrazione alla depressione. Ecco una questione sulla quale converrà soffermarsi e riflettere.

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La depressione ha varie cause che la determinano. La prima, fatalistica e al tempo stesso consolatoria, la spiega con la teoria del ciclo economico; sarebbe una sorta di respiro: la depressione ha una pausa nel corso della quale la società decresce, la miseria aumenta e si diffonde fino a quando, toccato il fondo, tutta l’attività si rimette in movimento, il benessere torna a diffondersi, il progresso sociale raggiunge vette ancor più alte di prima. Si discute tra i sostenitori di questa tesi quale sia la durata del ciclo; secondo alcuni la depressione arriva ogni 25 anni, secondo altri 50 ed altri ancora prevedono che avvenga ogni 70 anni.

I sostenitori della seconda tesi escludono la teoria del ciclo e ne sostengono un’altra molto più convincente: la cattiva e a volte pessima distribuzione della ricchezza. Il liberismo in realtà genera rapidamente sistemi economici monopoloidi, dove il 10 e a volte perfino il 5 per cento della popolazione possiede il 40 e a volte il 50 per cento della ricchezza nazionale. La depressione sarebbe causata da questa diseguaglianza, una sorta di ribellione improvvisa dei ceti più bassi che sperano di ottenere l’intervento dello Stato per modificare in senso più egualitario le classi della società. Il “New Deal” di Delano Roosevelt puntò su questo aspetto. Lo fece però con molta prudenza e rispettando i privilegi dei ricchi ma sostenendo i bisogni primari dei poveri e affidando allo Stato alcune iniziative economiche.

Del resto tutto il pensiero marxista nacque sulla tesi della pessima distribuzione della ricchezza che avrebbe provocato, una volta compiutasi la rivoluzione borghese, la rivolta proletaria e l’instaurazione d’una società comunista.

C’è però una terza tesi che spiega la depressione dandone la responsabilità principale ai possessori del capitale, ai capi delle aziende e al management; questa rappresenta la vera classe dirigente d’un paese e si comporta come una classe chiusa nella forza dei suoi privilegi. Non reinveste i profitti ma li incassa come dividendi e/o come bonus destinati al management. Questa massa di ricchezza viene affidata alle banche d’affari che investono e speculano su determinati asset, sulle industrie del lusso, miniere non utilizzate, mutui all’edilizia popolare, nuove invenzioni tecnologiche che puntano sul restringimento della base occupazionale. Insomma speculazione; a volte positiva perché fa avanzare il nuovo, altre volte negativa perché sottrae risorse all’industria, all’agricoltura, ai servizi e le destina alla finanza e al suo arricchimento.

Questi comportamenti generano inevitabilmente corruzione, evasione fiscale, disoccupazione, potenza delle lobby, demagogia politica, capitalismo selvaggio. Schumpeter vedeva al tempo stesso l’aspetto positivo di questi comportamenti e l’aspetto negativo dovuto a una distruzione di ricchezza a danno dei molti e a favore dei ricchi. Non a caso sia quella del 1929 sia quella del 2008 sono nate a Wall Street. La deflazione non aveva nulla a che vedere con quegli eventi.

L’Europa dal 2011 a oggi ha importato la depressione (ricordate il fallimento di Lehman Brothers come campanello d’allarme?) ma in Italia questo percorso era già cominciato nientemeno che a metà degli anni Settanta del secolo scorso, si era rafforzato socialmente ed economicamente negli anni Ottanta e Novanta; infine fu ed è infinitamente accresciuto dalla sopravvenuta crisi americana.

Mettete insieme le tre tesi sopra esposte e aggiungetevi come sovrappiù la crisi di deflazione nel frattempo esplosa a causa del credit crunch delle banche, il malgoverno politico e avrete fotografato la situazione.

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Il 30 agosto Matteo Renzi rivendicherà davanti ai capi di governo europei e al neo presidente della Commissione, la necessità di una nuova politica europea fondata sulla flessibilità, la crescita, la diminuzione della pressione fiscale in Italia e il necessario taglio della spesa pubblica. Rivendicherà inoltre il ruolo di Alta rappresentante della politica estera e della difesa per l’attuale nostra ministra degli Esteri.

Quest’ultima partita è già quasi persa in partenza ma qualora fosse vinta è pura e semplice fuffa. L’ho già scritto tre volte nei miei articoli domenicali: è una carica di semplice apparenza, non ha alcun potere su 28 paesi ciascuno dei quali ha un suo ministro degli Esteri e un suo ministro della Difesa. Avrebbe un senso se ci fosse in quei due settori la cessione di sovranità all’Europa, ma questo è allo stato dei fatti un’ipotesi di terzo grado, cioè irrealizzabile. Debbo dire che, almeno ai miei occhi, sarebbe quanto mai opportuna coi tempi che corrono; ma ove mai da qui a una decina d’anni si realizzassero gli Stati Uniti d’Europa, questa degli Esteri e della Difesa sarebbe l’ultima delle cessioni di sovranità.

Le altre richieste sulla flessibilità, sul rinvio della diminuzione di debito pubblico, sul taglio della spesa pubblica e la diminuzione della pressione fiscale, a me sembrano bubbole.

Bisognerebbe destinare risorse cospicue al taglio dell’Irap. Bisognerebbe che le imprese scoprissero nuovi prodotti e li lanciassero sui mercati, bisognerebbe che investissero in imprese nuove. Bisognerebbe creare un solido sistema di ammortizzatori sociali, bisognerebbe che i contratti aziendali avessero la meglio sui contratti nazionali, sempre che le aziende al di sotto dei 50 dipendenti stipulassero contratti di gruppo con sindacati di gruppo per non lasciare le aziende con pochi dipendenti alla mercé dei padroncini.

E bisognerebbe che Draghi mantenesse i suoi impegni e ai primi di settembre cominciasse la battaglia di fondo contro la deflazione.

Nel frattempo temo che il governo impieghi una parte preziosa del suo tempo alla riforma della legge elettorale che così come la stanno pensando servirà soltanto a rafforzare il potere esecutivo. Ma di questo ho già parlato e ormai me ne è passata la voglia. Un esecutivo forte è quanto ci vuole per farci uscire dalla depressione; se invece il suo principale miraggio è quello di rafforzarsi sempre di più, allora bisognerà ridiscutere non solo di depressione e di deflazione ma anche di democrazia individuale e sovranità popolare fittizia, una strada che rischiamo d’aver già imboccato riducendo il Senato a un’istituzione che prima sarà del tutto abolita e meglio sarà.

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