Economia

Patto di Stabilità: ecco quanto costerà all’Italia

Non è un mistero che il Governo Meloni non fosse così soddisfatto del risultato raggiunto dall’Italia con il Patto di Stabilità e Crescita e la bocciatura alla Camera del MES il giorno dopo l’accordo sul Patto risulta quasi una vendetta più che un’ammissione di una sconfitta. E questo astio non perché i vincoli del nuovo Patto di Stabilità sul deficit e spesa su quattro o sette anni siano tanto più stringenti delle vecchie regole, ma perché il controllo della Commissione non sarà più soltanto sui saldi, ma anche sul programma per rispettarli.

Quindi effettivamente ora la sfida per il Belpaese si fa dura e non si può più derogare al rigore. Anche se, il fatto che le nuove regole di bilancio del Patto di Stabilità abbiano aggiunto complessità ed eccezioni, con un margine di discrezionalità nell’interpretazione che si è addirittura ampliato sostituendo poche soglie numeriche chiare e magari troppo rigide, potrebbe giocare a favore di Meloni e delle sue campagne elettorali. L’analisi di sostenibilità del debito, per esempio, richiede ipotesi forti e discutibili sull’andamento dell’economia nei sette anni futuri e nessuno ha la palla di cristallo.

Nel frattempo, però, l’Italia, Paese in EDP, cioè Procedura di Disavanzi Eccessivi, dovrà continuare con una correzione strutturale di 0,5% del PIL, eventualmente ridotta dai fattori mitiganti previsti per il periodo transitorio. Nel complesso, lo sforzo fiscale del biennio 2025-26 potrebbe risultare minore di quello ipotizzato dal Governo nella NADEF, ma poi si rischia di tornare al punto di partenza. L’intensità della correzione successiva dipenderà infatti dalla durata del periodo di aggiustamento, ma è probabile che per l’Italia quest’ultimo sia pari a 7 anni.

Da un primo calcolo approssimativo effettuato dalla Direzione Studi e Ricerche di Intesa Sanpaolo, assumendo che il deficit sia riportato sotto il 3% entro il 2026, servirà un avanzo primario pari al 2,2% del PIL per conseguire una riduzione media del rapporto debito/PIL di 1% all’anno, se il PIL nominale cresce del 2,5% annuo e il costo medio del debito è in media del 3,4%. La correzione fiscale cumulata rispetto alla situazione di bilancio del 2023 è pari a 3,7% del PIL: il deficit dunque dovrà essere portato e mantenuto a non più di 60 miliardi di euro, rispetto ai 109 miliardi del 2023. Ipotesi meno favorevoli sulla crescita o sulla situazione fiscale del 2026 implicano che l’aggiustamento necessario a ridurre il debito dell’1% all’anno in media siano anche superiori.

La simulazione del direttore del think tank Bruegel, Jeromin Zettelmeyer, stima invece che l’aggiustamento medio annuo del saldo primario strutturale per rispettare gli obiettivi indicati dal compromesso Ecofin dovrebbe essere di 0,61 punti all’anno contro i 0,55 stimati dal documento programmatico di bilancio.
E, ancora, il possibile sconto sul deficit per le spese per la difesa è una misura che l’Italia si intesta, ma serve ad altri: la spesa per la difesa in Italia è all’1,4 per cento del PIL, contro l’1,8 della Francia e ben il 2,8 della Grecia. Saranno loro ad avere gli sconti maggiori.
Anche il peso elevato degli interessi sul debito italiano dovrebbe contribuire a ridurre l’entità dell’aggiustamento richiesto, ma solo fino al 2027, ed è una clausola dall’effetto ambiguo: se la spesa per interessi sale molto, la stretta richiesta nel breve periodo può essere minore ma peggiorano le prospettive di sostenibilità del debito, che sono un parametro che invece spinge per maggiore rigore.

“L’aspetto positivo della riforma è che si fa un mezzo passo nella direzione di un meccanismo basato sull’analisi di sostenibilità del debito, che potrebbe portare a percorsi di aggiustamento più credibili e condivisi. L’aspetto negativo è che dei parametri quantitativi standardizzati sono stati comunque reintrodotti dalla finestra, rendendo le regole più complesse. Non è chiaro se le nuove regole saranno in grado di garantire politiche fiscali compatibili con la sostenibilità del debito e, allo stesso tempo, a incoraggiare le riforme necessarie a gestire le molte sfide di medio/lungo termine (invecchiamento della popolazione, l’adattamento climatico, la transizione energetica, la transizione digitale e le accresciute necessità di difesa). Il negoziato ha messo in luce che diversi Governi sono concentrati su obiettivi di breve termine, connessi alle scadenze elettorali e a esigenze di preservazione del consenso. Il sistema di regole viene visto non come un elemento di stabilità ma piuttosto come una rete di vincoli che bisogna trovare il modo di aggirare o disinnescare al fine di perseguire obiettivi contingenti. D’altro canto, è dubbio che tali processi di trasformazione sarebbero gestibili soltanto con una maggiore flessibilità di bilancio a livello nazionale, considerata la grande differenza di capacità fiscale tra Stati membri dovuta alle condizioni di partenza. Il primo test del nuovo Patto di Stabilità e Crescita avverrà quando Commissione e Stati membri negozieranno i primi piani strutturali di bilancio. Tuttavia, sarà soltanto con l’attuazione dei piani che si potrà verificare se la riforma è stata efficace”, ha commentato Luca Mezzomo, l’economista Direzione Studi e Ricerche di Intesa Sanpaolo.