di Luca Tobagi (Invesco) CFA ed Investment Director Invesco Italia

Referendum: Renzi si dimette, e ora?

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Il referendum costituzionale italiano del 4 dicembre 2016 si è appena concluso con un “no” alla riforma. Il premier Matteo Renzi ha rassegnato le sue dimissioni, come ipotizzato nei mesi precedenti il voto, aprendo una fase di incertezza politica. La campagna che ha portato al voto è stata lunga e non sempre centrata sul merito delle questioni.

Come spesso accade in caso di eventi molto discussi e dalle implicazioni più disparate, è bene mantenere lo sguardo e la mente aperti, per non reagire in modo impulsivo, ma per cogliere le opportunità che i movimenti di mercato possono offrire. E questo è proprio il nostro atteggiamento.

Il referendum costituzionale è davvero una linea spartiacque per l’Italia? Il nostro Paese può diventare un rischio per l’Area Euro?

La preoccupazione legata al referendum costituzionale è andata crescendo con l’avvicinarsi della chiamata alle urne e la tensione ha assunto forme diverse. In Italia, si è trattato soprattutto di uno scontro dialettico talvolta rovente e disordinato tra le diverse forze politiche e all’interno degli stessi partiti. Molti osservatori esteri si sono invece concentrati su ipotesi e analisi a sulle possibili conseguenze del voto non solo per la politica, ma anche per l’economia e la stabilità finanziaria del Paese e dell’area Euro in generale. L’Italia dovrà affrontare sfide impegnative, ma da un punto di vista fondamentale è molto improbabile che un “no” referendario aumenti il rischio di instabilità finanziaria del nostro Paese nel breve termine, benché la percezione -soprattutto estera- dell’aumento di un simile rischio possa condurre a ulteriori pressioni sui mercati finanziari.

In ogni caso, alcuni dei principali problemi che affliggono l’economia italiana, come corruzione, bassa certezza del diritto, lentezza della giustizia, scarsa trasparenza, burocrazia pesante, produttività stagnante, potrebbero essere affrontati in modo costruttivo anche anche senza il “sì” alla riforma costituzionale.

Quali potranno essere gli effetti del referendum sulla politica italiana?

È ancora troppo presto per valutare l’impatto del voto sulla politica italiana. Durante la campagna referendaria, sia il Partito Democratico che il Centro-Destra si sono divisi. È possibile che la frammentazione all’interno degli schieramenti si ricomponga in occasione delle prossime scadenze elettorali, ma le recenti dinamiche potrebbero aver aumentato la fragilità complessiva del sistema politico, riportando a galla comportamenti e tensioni interne che hanno reso così difficile trovare maggioranze stabili nel corso degli anni. Da questo punto di vista, è probabile che la vittoria del “no” non renda la posizione del PD e di Matteo Renzi, che potrebbe anche essere chiamato a formare un nuovo governo, molto più vulnerabile di quanto fosse già durante la campagna referendaria, così come una vittoria del “sì” non l’avrebbe resa molto più solida.

Le spinte centrifughe in Europa sono un rischio concreto?

In prospettiva europea, l’esito del referendum italiano ci proietta direttamente verso un 2017 in cui l’incertezza politica dominerà la scena, se non dell’andamento dei mercati, almeno del “newsflow”, ovvero delle prime pagine, con le elezioni in Olanda, Francia e Germania. In tutti questi paesi l’establishment1 politico ha perso consenso a beneficio di movimenti di carattere nazionalista-populista. I possibili cambiamenti nelle relazioni fra ciascun Paese e il resto dell’Unione Europea saranno un tema caldo, indipendentemente dalla loro effettiva praticabilità.

L’“Italexit” proposta da qualche leader politico ed evocata da alcuni mass media, cioè l’uscita dell’Italia dall’Unione Europea, appare ora assai improbabile, anche perché attualmente non prevista per i Paesi membri. La Costituzione italiana prevede inoltre che i trattati internazionali non siano materia disponibile per il voto referendario. Anche in Francia Marine Le Pen propone l’uscita dall’UE: una sua vittoria potrebbe essere un rischio maggiore per la tenuta dell’Eurozona, piuttosto che una vittoria del “no” nel referendum italiano. Il sentiment degli investitori e la politica saranno presumibilmente influenzati dall’andamento delle negoziazioni fra Gran Bretagna e Unione Europea sulla Brexit , se davvero inizieranno nella prima parte del 2017.

Che cosa pensano i mercati?

Gli ultimi due mesi del 2016 sono stati caratterizzati da un aumento dei rendimenti di mercato sui titoli governativi. In molti Paesi d’Europa, a cominciare dalla Germania, i tassi sono saliti notevolmente nel mese di ottobre. Il trend è proseguito in novembre, su entrambe le sponde dell’Atlantico, soprattutto dopo l’elezione di Donald Trump. Alla vigilia del referendum italiano, lo spread BTP-Bund si è riavvicinato al 2 % (vedi grafico sotto. La media dal 1958 a oggi è stata del 2,58 % Nella storia repubblicana, l’Italia ha cambiato all’incirca un governo all’anno e tre dei quattro più longevi sono stati in carica dopo il 2000. La percezione generale prima del referendum era che l’instabilità politica sarebbe potuta aumentare con una vittoria del “no”, ritenuto dai sondaggi l’esito più probabile del referendum. Il significativo riavvicinamento fra livello corrente dello spread (1,91 %) e la media storica sembra indicare che i mercati obbligazionari potrebbero avere in buona parte prezzato il rischio di un ritorno al passato”.

Anche il mercato azionario italiano, maglia nera d’Europa con un -25 % circa da inizio anno, ha perso il 5,5% circa da fine ottobre, mentre l’indice Stoxx 600 Europe è rimasto invariato e l’Euro Stoxx ha perso meno del 2%. È probabile che la percezione di un maggiore rischio politico possa averne influenzato l’andamento. Anche nel mercato azionario, quindi, buona parte del movimento associato a una mancata approvazione della riforma costituzionale potrebbe essere già stata scontata.

Referendum: Spread Btp Bund e media storica a confronto
Referendum: Spread Btp Bund e media storica a confronto. Fonte: Fed di St.Louis (28/22/16)

Preoccupazione per il futuro delle banche italiane

Il tema delle banche si intreccia in modo stretto con la percezione del rischio politico italiano, cosa per noi non sempre corretta. Il Financial Times aveva addirittura paventato il fallimento di otto banche italiane con la vittoria del “no”.

Le banche rappresentano il 15 % circa della capitalizzazione dell’indice FTSE MIB e hanno perso quasi il 20 % da fine ottobre, dando un notevole contributo alla discesa del nostro mercato azionario. Alcune banche hanno problemi noti che riguardano la profittabilità attuale e prospettica, ovvero la capacità di generare redditi, la solidità del bilancio gravato da sofferenze, la possibile necessità, in alcuni casi, di una ricapitalizzazione.

Inoltre, le banche italiane hanno un’esposizione considerevole al debito pubblico nazionale. L’ipotesi implicita è che un esito del referendum sfavorevole a Renzi avrebbe creato instabilità politica, magari addirittura spingendo il primo ministro alle dimissioni, cosa che avrebbe danneggiato le banche in due modi: attraverso l’aumento degli spread sui titoli di Stato e attraverso l’apertura a un governo tecnico più orientato ad accontentare l’Europa che a tutelare un supposto interesse nazionale, e quindi severo nell’applicazione delle norme sulla risoluzione bancaria. Un governo politico stabile potrebbe invece gestire la situazione in modo più malleabile.

Inoltre, molti considerano superiore il rischio di una mancata esecuzione di progetti di ricapitalizzazione in caso di instabilità politica o di un eventuale governo tecnico. La nostra opinione è che se l’evoluzione dello scenario per le banche italiane, in particolare quelle in condizioni più delicate, prendesse una china critica, difficilmente un governo politico potrebbe modificare la situazione o evitare l’applicazione delle normative europee con i suoi interventi.

È invece possibile che il comparto bancario abbia prezzato buona parte degli scenari più sfavorevoli e che quindi possiamo vedere una parziale inversione di tendenza dopo la vittoria del “no”, soprattutto in caso dovesse diventare evidente che uno scenario pessimistico di fallimenti multipli non sia realistico.