di Joseph V. Amato (Neuberger Berman) President and Chief Investment Officer - Equities; hanno partecipato anche Brad Tank, Chief Investment Officer - Fixed Income e Ashok K. Bhatia, CFA, Senior Portfolio Manager - Multi-Sector Fixed Income.

Guerra dazi, un braccio di ferro da $200 miliardi

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Quando a marzo i rapporti commerciali tra Washington e Pechino hanno cominciato a incrinarsi avevamo avvertito che gli sviluppi della situazione avrebbero probabilmente occupato le prime pagine dei giornali per il resto dell’anno, anche se il loro influsso sul sentiment del mercato sarebbe stato limitato. Avevamo raccomandato agli investitori di concentrarsi sui chiari segnali provenienti dalle maggiori banche centrali e di ignorare il “rumore” di fondo.

Nelle ultime due settimane il rumore si è però fatto troppo alto per essere ignorato, e indubbiamente sta pregiudicando il clima di fiducia dei mercati. I rischi derivanti da questo braccio di ferro stanno aumentando, così come le tensioni tra gli Stati Uniti e gli altri partner commerciali, tra cui Canada, Messico e Unione Europea.

Come avevamo segnalato nelle Prospettive della settimana scorsa, i mercati non sono ancora disposti a fidarsi dell’amministrazione Trump per quanto concerne i negoziati commerciali. I prossimi mesi, durante i quali rumore e preoccupazioni non potranno che aumentare, saranno di cruciale importanza per il clima di fiducia. È giunto il momento di chiarire per quale motivo restiamo del parere che le due potenze rivali cambieranno direzione all’ultimo momento per evitare le devastanti conseguenze di uno scontro frontale.

Un gioco di ritorsione

Il 15 giugno gli Stati Uniti hanno annunciato l’imposizione di dazi fino al 25% su beni cinesi per un valore complessivo di $ 50 miliardi a partire dal 6 luglio. La misura, ventilata già da marzo, di per sé non comporta conseguenze particolarmente onerose. Infatti, secondo la maggior parte degli economisti le sue ripercussioni per l’economia americana e cinese si limiterebbero a un decimo di punto percentuale al massimo da sottrarre dai rispettivi PIL.

Molto più preoccupante è la notizia che, per imporre i dazi commerciali, Washington avrebbe rifiutato l’offerta di Pechino di incrementare di $ 70 miliardi le importazioni di prodotti americani l’anno prossimo. La Cina ha reagito quasi immediatamente alla decisione con l’annuncio di tariffe commerciali su $ 50 miliardi di beni statunitensi. Washington ha risposto alludendo a nuove possibili misure che colpirebbero importazioni cinesi per un valore complessivo di $200 miliardi.

Le conseguenze di questa escalation potrebbero costare da uno a tre decimi di punto percentuale del PIL. Il prezzo di questa guerra di ritorsione ci sembra decisamente troppo alto.

Il teatro della battaglia si allarga

Fino a che punto potrebbe arrivare? Molto lontano, a quanto pare.

Peter Navarro, consulente per il commercio della Casa Bianca, afferma che “la posta in gioco è molto più alta per la Cina che per noi” e che Pechino “potrebbe aver sottovalutato la determinazione del presidente Trump”. Queste dichiarazioni sembrerebbero basarsi sul fatto che le esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti ammontano a $ 500 miliardi, mentre quelle statunitensi verso la Cina soltanto a $ 130 miliardi, per questo Pechino finirà per restare priva di prodotti a cui applicare tariffe prima di Washington.

Il che è vero, ma la Cina potrebbe facilmente allargare il teatro della battaglia. Le controllate e le joint-venture locali delle società americane realizzano ingenti ricavi in Cina, e secondo la maggior parte delle stime il loro fatturato complessivo supera $ 250 miliardi. L’arma più pericolosa della Cina in questa guerra commerciale non sono probabilmente i dazi, ma la possibilità di chiudere i negozi Apple, ad esempio, o di complicare in qualche altro modo la vita di queste società statunitensi, senza parlare della prospettiva di eventuali boicottaggi da parte dei consumatori cinesi o di iniziative di maggiore impatto sul vincolo di oscillazione tra la valuta cinese e quella statunitense o sulle riserve di Treasury detenute da Pechino.

Inoltre, anche se potrebbe essere vero che in una guerra commerciale la Cina rischia di subire le perdite maggiori, è altrettanto possibile che abbia una “soglia del dolore” più alta. Yi Gang, governatore della Banca Popolare Cinese, ha affermato di essere pronto a sostenere il mercato interno con “ogni tipo di strumento monetario” e che il paese “è in grado di resistere a qualsiasi tipo di guerra commerciale”.

Gli Stati Uniti naturalmente beneficiano dello stimolo fiscale, e bisogna ammettere che sinora la reazione dei mercati locali è stata limitata. Se le tensioni continuassero ad aumentare la Casa Bianca sarebbe disposta a esporsi al rischio di un ribasso del 10% od oltre dei listini prima delle elezioni di metà mandato, o di una graduale contrazione dei prezzi delle commodity agricole durante la stagione dei raccolti?

Un’inversione di rotta per salvare la faccia

Per questi motivi, entrambe le controparti hanno forti motivi per cambiare rotta e uscire da questo letale braccio di ferro con la dignità intatta. L’incentivo è particolarmente forte per Trump, che in vista delle elezioni di novembre ha bisogno di corteggiare l’opinione pubblica con notizie positive. Secondo alcuni l’offerta iniziale di aumentare le importazioni di beni statunitensi non era soltanto troppo vaga, ma sarebbe arrivata troppo presto e senza sufficienti pressioni perché la Casa Bianca fosse disposta ad accettarla.

Mancava insomma l’indispensabile pathos di una sfida all’ultimo sangue. Quando il momento sarà più propizio, si dice, un’offerta analoga ma dettagliata in maniera più chiara e con meccanismi di applicazione più definiti porrà fine al braccio di ferro.

I mercati non escludono inoltre la possibilità che, una volta calmatesi le acque, i dazi globali scendano su livelli addirittura inferiori a quelli attuali. Ad esempio, la settimana scorsa alcune delle maggiori case automobilistiche tedesche hanno appoggiato la proposta di eliminare i dazi commerciali del 10% sulle automobili statunitensi dirette verso l’Europa e del 2,5% su quelle europee esportate negli Stati Uniti.

Per questi motivi, siamo sempre convinti che queste schermaglie siano soltanto un picco di volatilità a breve termine piuttosto che l’inizio di una fase con conseguenze molto più gravi. Esiste però un rischio concreto che l’amministrazione Trump sia veramente disposta a darsi la zappa sui piedi per danneggiare il modello economico della Cina. È anche possibile che nei quattro mesi che rimangono prima delle elezioni di metà mandato la situazione finisca per sfuggire di mano. Ciò nonostante, per il momento restiamo convinti che – malgrado le crescenti tensioni – i due avversari eviteranno lo scontro frontale.