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Libia: l’Italia è condannata a intervenire

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L’Italia sta “conducendo dalle retrovie” la risoluzione della questione libica, in particolare per quanto riguarda l’ipotesi di un intervento militare nell’ex colonia italiana; titola così l’Economist, nel suo focus dedicato al ruolo del nostro Paese in Libia. “Nessuno ha più da guadagnare dell’Italia dalla fine del caos in Libia” scrive il newspaper britannico ricordando le tre principali preoccupazioni per i policy maker di Roma: l’immigrazione, il terrorismo e i determinanti rapporti commerciali.
Il flusso migratorio che rischia di scompaginare gli equilibri politici interni e il rapporto coi vicini austriaci (che hanno posto le basi per un’eventuale chiusura delle frontiere) parte proprio dall’ex colonia italiana; ad aiutare il passaggio dei migranti, secondo quanto riporta l’Economist sono trafficanti che corrispondono “tasse” anche all’Isis, presente sul territorio libico con 5mila uomini. “La crisi dei migranti e la minaccia terroristica si sovrappongono”, scrive la rivista. Del resto, “Estrarre tasse dai trafficanti d’uomini è facile quando si posseggono armi e la reputazione dell’omicida”.

Ma il vero dilemma a Roma è un altro. Se da un lato solo un terzo degli italiani, secondo gli ultimi sondaggi, sarebbe disposto a sostenere l’intervento armato, il timore è che cedere la guida per qualsiasi futura azione occidentale “possa far cadere l’ex colonia sotto l’influenza commerciale francese o britannica”. Nello scriverlo, l’Economist ricorda che l’Eni realizza in Libia circa il 20% della sua produzione, mentre le importazioni italiane di gas provenienti dal Paese sono 12% del totale.

Per l’intervento l’Italia ha chiesto il decisivo supporto del neo insediato governo di Unità nazionale presieduto da Fayez al-Serraj: se questa nuova entità supportata dall’Onu dovesse soccombere agli egoisimi dei due governi precedenti, quello di Tripoli e quello di Tobruk (che non ha ancora al-Serraj) le opzioni rimanenti saranno difficili per tutte le forze occidentali. Ma per l’Italia, conclude l’Economist, anche “molto dolorose”.