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Israele, giornalista Haaretz: “qui mi sento soffocato, me ne vado”

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TEL AVIV (WSI) – «Israele è casa mia ma non posso più viverci. Me ne vado». Apriti cielo: su Rogel Alpher – firma storica del progressista Haaretz e opinionista di peso della testata – in un battibaleno si è scatenata una tempesta perfetta che a distanza di giorni non accenna a placarsi.

Uno dei commenti, nelle decine di lettere di risposta al quotidiano e sul web all’annunciata decisione del giornalista, è stato un lapidario: «Che vada. E velocemente». Seguito da un più graffiante «I topi lasciano anche le navi che non affondano», vergato da Yehuda Bauer, affermato storico di Gerusalemme.

L’accusa di “leso sionismo” – più volte rivolta nei giorni della guerra con Gaza ad altri dissidenti dalla politica della destra di governo di Benyamin Netanyahu – ha così colpito anche Alpher. L’affondo del giornalista – argomentato in un lungo articolo su Haaretz – sembra aver toccato alcuni dei nervi scoperti della società israeliana nella situazione del dopo scontro con Hamas e nell’incertezza di un possibile accordo di pace futuro. Anche se va detto che l’opinione estrema di Alpher sembra rappresentare una piccola minoranza del Paese.

«Dalla mia prospettiva – ha scritto – ciò che vale per Tel Aviv deve valere per le comunità sul confine con Gaza. Lì – ha osservato affrontando il tema spinoso dell’insicurezza in cui vivono gli abitanti del sud di Israele rispetto al resto del Paese – non puoi vivere una vita serena. Lì puoi morire». Per questo Alpher – nonostante la “bolla” di Tel Aviv – ha detto di non poter «giustificare» ai suoi figli «il fatto di continuare a vivere qui. Israele è un posto pericoloso – ha insistito – che prende più di quello che da e per ragioni che io non condivido».

Elencando i motivi, Alpher non si è nascosto dietro un dito:«Israele – ha osservato parlando a nome dell’anima più liberal e laica del Paese – non vale il prezzo che ci chiede. C’è una maggioranza nazionalista- religiosa-ultraortodossa, e il nostro stile di vita non sopravviverà nella nostra patria. Abbiamo più possibilità di mantenerlo altrove. Questa è la verità».

Alpher non ha neppure celato di nutrire poche speranze sul futuro: nella regione – ha spiegato – non ci sarà alcun «compromesso: uno Stato Palestinese non nascerà mai e uno binazionale sarebbe un inferno». E ha sostenuto di essere piuttosto scettico sull’esistenza di possibili alternative: chi sarebbero – si è domandato – «Le forze razziste del ministro degli esteri Avigdor Lieberman? Le vuote parole di Yair Lapid? L’inutile pessimismo del primo ministro Netanyahu? Per loro e per i loro elettori, essere ebrei che vivono in Israele è la cosa più importante e per la quale vale la pena di morire». È come – ha aggiunto riferendosi al Memoriale della Shoah a Gerusalemme – se vivessero «a Yad Vashem».

Parole che hanno infiammato gli animi: un editorialista di Ysrael HaYom (giornale di destra vicino a Netanyahu) Danny Margalit ha replicato ad Alpher dandogli senza mezzi termini del «miserabile» e del «traditore». «Gli auguro – ha incalzato – una vita felice a Parigi, fra Hamas e l’Isis». «Disgustosi quelli che si separano quando il periodo è più difficile», ha poi tuonato.

Accanto a critiche tanto feroci, non manca qualche appoggio, seppure condizionato. Come quello di un lettore di Haifa che, dopo aver mostrato comprensione per lo scoraggiamento del commentatore di Haaretz, si è detto convinto che ci siano ancora margini per resistere. E che la sinistra sionista non smetterà di «lottare per un accordo di pace con i vicini» poiché «non si rinuncia così a quanto conseguito in 65 anni».

Sulla rinuncia di Alpher, un altro lettore ha invece ricordato come monito quanto detto di recente alla tv polacca da Shevach Weiss, ex ambasciatore a Varsavia. A un intervistatore che gli faceva notare come Israele sia in una zona problematica e che forse gli ebrei starebbero meglio altrove, Weiss ha risposto secco: «Da voi ci siamo già stati…».

Il contenuto di questo articolo, pubblicato da Il Secolo XIX – che ringraziamo – esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

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