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Goldman: spread a 575 irrazionale, oggi dovrebbe essere peggio

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MILANO (WSI) – Lo spread fra BTP e Bund a 575 punti base era del tutto ingiustificato. A dirlo è stata Goldman Sachs, che all’inizio di questa settimana a Londra ha presentato la propria strategia d’investimento per l’anno in corso. Fra le tante presentazioni c’era anche quella di Francesco Garzarelli, co-head della divisione Global Macro-Markets Research della banca statunitense. Ciò che Goldman Sachs ha spiegato è stato tanto semplice. Il differenziale fra i bond governativi italiani con scadenza a dieci anni e i corrispettivi tedeschi, nel finale del 2011, doveva essere circa di tre punti percentuali in meno rispetto a quanto era negoziato sul mercato secondario. In altre parole, l’Italia non meritava uno spread così elevato.

Gli investitori istituzionali che hanno venduto i titoli di Stato italiani per irrazionalità o per un concreto timore sulla stabilità del Paese? È questa la domanda che si stanno ponendo in tanti. Cosa è successo fra il maggio 2011 e il luglio dell’anno scorso, prima che la Banca centrale europea (Bce) cristallizzasse i mercati finanziari? Senza le rassicurazioni di Mario Draghi, arrivate a fine luglio in modo perentorio, l’Italia avrebbe continuato a pagare il 5% in più rispetto alla Germania per rifinanziarsi sul mercato obbligazionario. Senza le Outright monetary transaction (Omt), cioè lo speciale programma di acquisto di bond governativi da parte della Bce lanciato nel luglio 2012, Roma sarebbe ancora nel mirino degli investitori più aggressivi.

In realtà, è possibile che l’Italia torni presto sotto pressione. Le elezioni politiche imminenti, ma soprattutto la recessione e la debolezza strutturale dell’economia italiana, hanno spinto in alto il Fair spread di Goldman Sachs ai massimi livelli dal 1996. Questo indicatore usato internamente dalla banca americana valuta i fondamentali di un Paese, e non solo la percezione che i mercati finanziari hanno di esso in un dato periodo temporale. E in base a questo altro spread, l’Italia avrebbe meritato un differenziale di rendimento con la Germania molto minore, circa il 3% in meno rispetto a quanto toccato intorno a metà novembre 2011.

Di fronte a dati così diversi bisogna fare un passo indietro e cercare di ricordare in che situazione era l’Italia. La rottura politica fra Silvio Berlusconi e il suo ministro delle Finanze, Giulio Tremonti, si è consumata nel 2011. Ed è stata molto più importante che quella, assai più plateale, con il presidente della Camera, Gianfranco Fini. La prima componente dello spread fra BTP e Bund è quindi meramente politica. L’ipotesi di una crisi all’interno della terza economica dell’eurozona, in un momento in cui stava emergendo per la prima volta il rischio di convertibilità dell’euro, era uno degli scenari peggiori per gli investitori. Eppure, neppure una crisi politica può giustificare una discrepanza così elevata fra lo spread reale e lo spread sui mercati obbligazionari secondari.

C’è quindi la seconda componente di questo fenomeno: il contagio. Fra luglio e novembre 2011 gli investitori internazionali, specialmente asiatici e statunitensi, hanno iniziato a guardare l’Europa con estrema diffidenza. «Sembra l’Italia del Medioevo, un’area in cui tutti vogliono avere la meglio sugli altri», disse in quei mesi a Linkiesta un importante gestore di hedge fund americano. Aveva ragione. Con la Grecia vicina al collasso, la Spagna sull’orlo di una richiesta di sostegno alla comunità internazionale e l’Italia pronta a capitolare, l’Europa era vista come un continente vicino alla rovina. Si scatenò l’isteria di vendite sui titoli governativi dell’eurozona, con una prevalenza sui Paesi dell’area periferica, fra cui l’Italia. E dato che l’Italia aveva un circolante di bond assai maggiore rispetto a tanti altri Paesi, specie nei portafogli d’oltreoceano, l’impatto è stato più elevato.
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Infine, c’è un terzo fattore che sta dietro alla differenza fra reale e percepito. L’Italia, a differenza di altri Paesi, ha dei fondamentali economici che risentono dei gap strutturali. L’immobilismo politico, unito alle mancate riforme del mercato del lavoro, alle mancate liberalizzazioni e alle mancante privatizzazioni, ha fatto il resto. L’Italia ha iniziato a perdere colpi sui mercati finanziari in quanto c’era il rischio, concreto, che potesse arrivare un’ulteriore frenata del processo di riforme, necessario per tutta l’eurozona.

Oggi, paradossalmente, l’Italia sta peggio di un anno fa. Il motivo lo si evince anche dal Fair spread di Goldman Sachs, salito ai massimi dal 1996. I fondamentali italiani, nell’arco degli ultimi 13 mesi, sono peggiorati. La recessione che doveva essere solo leggera nel 2012 è stata rivista al ribasso. Secondo i dati della Banca d’Italia il Pil dell’anno appena trascorso si è contratto di 2,1 punti percentuali. E il 2013 che doveva essere l’anno della ripresa economica, sempre secondo la Banca d’Italia, si chiuderà con una contrazione di un punto percentuale. E poco importa «se la ripresa arriverà nel corso dell’anno», come dicono Governo e Tesoro.

Anche Goldman Sachs, da un punto di vista tecnico, dice che la ripresa italiana si avrà in quest’anno: +0,1% nel quarto trimestre. A meno che non ci siano revisioni al ribasso. Chissà che alla fine non sia proprio Goldman Sachs, la banca in cui hanno lavorato sia Mario Draghi sia Mario Monti, a offrire il migliore assist per la campagna elettorale di Silvio Berlusconi.

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