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Deficit oltre la soglia del 3%. Renzi convincerà l’Europa?

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ROMA (WSI) – Riforme, la pistola per Matteo è la legge elettorale– È il primo punto nell’agenda di Matteo Renzi, e proprio per questo Letta preferirebbe tenerlo fuori del patto di governo.

Nello schema renziano la riforma della legge elettorale è la pistola da mettere sul tavolo delle trattative, lo spartiacque della sua azione: tutti sanno che senza di essa il Capo dello Stato non dirà mai sì ad una richiesta di scioglimento anticipato delle Camere. Per superare il sistema partorito dalla sentenza della Corte Costituzionale (proporzionale puro con una preferenza), Renzi ha fatto tre proposte: un sistema spagnolo corretto (proporzionale ma con collegi piccolissimi), il ritorno all’uninominale maggioritario in vigore dopo il ’93 (il cosiddetto Mattarellum), una versione nazionale del sistema in vigore nei Comuni, ovvero proporzionale ma a due turni, con premio di maggioranza da assegnare al ballottaggio.

Tre soluzioni diverse per stanare i tre leader con i quali Renzi dovrà fare i conti: al M5S non dispiace lo spagnolo, Forza Italia ha sostenitori dello spagnolo e del Mattarellum, il Nuovo centro di Alfano tifa per il sistema dei sindaci. Grillo si è sfilato dalla trattativa, Forza Italia non ha ancora deciso che fare, dunque per ora l’unico che tratta apertamente è Alfano.

Ma occorre tenere conto anche del quarto incomodo, ovvero Scelta Civica: il capogruppo alla Camera Andrea Romano ha detto di essere favorevole al Mattarellum corretto con un secondo turno che assegni un premio di maggioranza. «L’accordo non si fa necessariamente a colpi di maggioranza», dice la responsabile riforme del Pd Boschi. In quel «non necessariamente» c’è tutta la fretta dei renziani.

Lavoro, riformare gli ammortizzatori costerà 5 miliardi

Sul piano lavoro, il cosiddetto «Jobs Act» si testerà la capacità del governo di dialogare con il nuovo corso renziano. L’attuale ministro, l’ex direttore Ocse Enrico Giovannini, si è finora mosso con grande prudenza. Non ha mai parlato né di contratto unico, né tantomeno di universalizzazione delle tutele dal licenziamento, una riforma complessa e molto costosa da realizzare. Per grandi linee il progetto del nuovo Pd sarà presentato dallo stesso Renzi alla direzione del Pd il 16 di questo mese, dunque prima della firma del cosiddetto «contratto di governo».

Sui temi del lavoro Renzi è in sintonia con Scelta Civica di Monti e Ichino, così come con la Cisl di Bonanni, mentre dovrà affrontare la sinistra del suo partito, che su questi temi si sente in parte rappresentata dalla responsabile Lavoro Madia. Per evitare strappi Renzi ha deciso di invertire l’ordine dei fattori: prima si discuterà di come allargare le attuali tutele dal licenziamento, poi della revisione delle tipologie di contratti, del contratto unico e del superamento dell’articolo 18.

In questo caso Letta, da sempre sostenitore di una maggiore flessibilità, non potrà che trovarsi in sintonia con le tesi del segretario. Se c’è un tema che può dare ossigeno alla durata del suo governo è il piano per il lavoro. Una riforma adeguata del sistema degli ammortizzatori in grado di dare tutele a tutti coloro che oggi ne sono privi costa fra i tre e i cinque miliardi di euro e deve inevitabilmente raccordarsi con il piano triennale di revisione della spesa del commissario Cottarelli.

Europa, richiesta di elasticità sul vincolo del 3%

«E’ evidente che si può sforare: si tratta di un vincolo anacronistico. Non è l’Europa che ci ha cacciato in questa crisi ma la mancanza di visione. Se c’è una leadership con una visione, non vedo problemi a superare il tetto del deficit anche se poi va fatta un battaglia per cambiare le regole. Non solo sui conti pubblici». Non siamo al «Patto stupido» di Prodi, ma poco ci manca.

Da un po’ di tempo a questa parte – questa battuta l’ha riferita al Fatto quotidiano – Renzi veste i panni dell’europeista critico. Ma ci tiene a sottolineare che la sua non è una posizione di maniera, né il tentativo di convincere l’Europa a farci allargare i cordoni della borsa. Semmai è una questione di «do ut des»: se noi ci impegniamo a fare certe riforme – ad esempio una riduzione importante delle tasse sul lavoro -?allora Bruxelles deve chiudere un occhio sul rispetto dei vincoli.

In fondo è la stessa posizione del governo, che però ha finora ottenuto l’atteggiamento opposto, ovvero la richiesta di maggior rigore. L’ultimo avvertimento della Commissione europea – benché non formale – è di poche settimane fa, e vale la richiesta di sei miliardi di euro di maggiori tagli alla spesa.

Il commissario agli Affari monetari Rehn avrebbe voluto ottenerli nella legge di Stabilità, il governo ha promesso novità a fine febbraio con la prima tranche della nuova spending review.

Due le ragioni dell’irrigidimento europeo: uno scarso impegno dell’Italia sulla riduzione del debito pubblico (di qui la decisione di varare rapidamente un piano di privatizzazioni) e nelle riforme strutturali. Il cambio di passo potrebbe consistere proprio in progetti come il «Jobs Act».

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