Economia

Economist: troppa paura del debito pubblico ha fatto solo danni

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L’approccio degli economisti verso la spesa pubblica si è fatto abbastanza critico da diversi anni. Se si escludono i sostenitori di teorie eterodosse, che generalmente restano ai margini delle riviste scientifiche di maggior livello, l’invito alla moderazione del deficit pubblico è sempre stato costante.

Ma le esperienze del Giappone e, soprattutto, degli Usa di Trump, stanno offrendo nuovi spunti di riflessione ai ricercatori mainstream, scrive l’Economist.

“I governi non possono indebitarsi senza limiti”, riflette la rivista britannica, “eppure per gran parte dell’ultimo decennio i politici hanno stimolato le economie troppo poco. I paesi ricchi hanno passato molto più tempo al di sotto della loro capacità produttiva che al di sopra di essa – con gravi costi economici. Una paura eccessivamente pronunciata del debito pubblico, accresciuta dagli economisti, è in parte da biasimare”.

In particolare, ad essere messo in dubbio sarebbe il principio secondo il quale le nuove spese del governo debbano essere compensate sempre da maggiori entrate fiscali. Durante l’era Trump, con un rapporto deficit Pil arrivato al 6%, ciò sicuramente non è avvenuto. E in verità, fra gli economisti, sono in pochi a lamentarsene, nota l’Economist.

Il newspaper britannico, per sostenere la necessità di un parziale ridimensionamento dei rischi del deficit ha citato l’esempio più caro anche ai sovranisti italiani, quello del Giappone.

“L’esperienza del Giappone, in cui il debito pubblico in percentuale del Pil supera il 230%, suggerisce che anche livelli molto alti di debito potrebbero non spaventare i creditori, almeno nelle economie avanzate che si indebitano nelle proprie valute”, afferma l’Economist, riferendosi al fatto che in Giappone la banca centrale nazionale può, se necessario, acquistare direttamente titoli di stato – controllandone così il tasso d’interesse.

“E in una recente conferenza Olivier Blanchard, ex economista a capo del Fmi, ha sottolineato che quando il ritmo della crescita economica supera il tasso di interesse sul debito di un paese, la gestione dell’indebitamento diventa sostanzialmente più facile”. Detta altrimenti, maggiore è il reddito nazionale, maggiore è il livello di disavanzo che può essere tollerato senza che questo si traduca in un maggior “bagaglio” di debito.

Storicamente, ha scritto in un paper lo stesso Blanchard, il tasso di crescita nominale negli Stati Uniti è stato superiore all’interesse dei titoli di stato Usa a un anno (5,3% contro 4,6%). A tenere sotto controllo la crescita del debito, scrive sempre l’Economist, è più questo equilibrio fra crescita e tassi d’interesse che non “la deflazione indotta dall’austerity”, come quella sperimentata negli anni Venti, che puntava a far riscuotere allo stato più di quanto spendeva (cioè a realizzare avanzi di bilancio).

Queste considerazioni si possono applicare al caso italiano? Sicuramente i pensatori economici di riferimento del governo gialloverde sottoscriverebbero ogni riga del commento pubblicato dall’Economist. Ma alcune precisazioni restano fondamentali, prima di passare alla conclusione che lo stato italiano dovrebbe spendere di più.

La prima riguarda l’appartenenza alla moneta unica, che impedisce il confronto con un Paese come il Giappone. I poteri della Bce non sono paragonabile a quelli della Bank of Japan, in quanto Francoforte non può acquistare direttamente i titoli di stato. In secondo luogo, l’Italia è, piaccia o no, vincolata da trattati che regolano le politiche di bilancio la cui violazione genera effetti collaterali sconosciuti ai Paesi sopra citati. La più famosa di queste controindicazioni si chiama spread e incide direttamente sul costo dei futuri indebitamenti dello stato, minandone la sostenibilità.

Allo stesso tempo, i policy maker europei non potranno trascurare il fatto che l’austerità (per ammissione dello stesso Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione Ue) ha fatto ben poco per favorire la sostenibilità dei debiti pubblici. Nuove soluzioni di respiro condiviso sarebbero necessarie per riportare le economie più anemiche d’Europa ad esprimere il loro potenziale, disinnescando al tempo stesso, le incertezze che alimentano speculazioni finanziarie sui titoli pubblici.