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WALL STREET TEME LA SINDROME ANNI ’70

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(WSI) – L’ inflazione non è un problema così serio. Più grave è il rischio di recessione, con aumento della disoccupazione e calo del Prodotto interno lordo e dei consumi. È il ritornello che Ben Bernanke, il presidente della Federal Reserve (banca centrale Usa) ripete a Washington, davanti alle audizioni parlamentari e a Wall Street, davanti ai banchieri e investitori. E così il mercato si aspetta nuovi tagli dei tassi d’interesse dei Fed fund (punto di riferimento per il costo del denaro a brevissimo termine) alla prossima riunione del 18 marzo; e insieme sconta un balzo dell’inflazione, cioè dell’aumento dei prezzi.

Così si spiegano anche i record fatti segnare nei giorni scorsi dalle materie prime e dai beni di rifugio, e si alimentano i timori che gli Stati uniti siano alle soglie di una fase di stagflazione stile anni ’70: un mix di economia stagnante e prezzi alle stelle, nocivo sia per le tasche dei consumatori sia per i portafogli degli investitori. Ma anche il resto del mondo è preoccupato: dall’Europa alla Cina, cresce l’allarme per una fiammata inflazionistica che riduca le prospettive di crescita globale.

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Questa settimana il petrolio ha superato il record storico di 110 dollari al barile (in termini reali, tenuto conto dell’inflazione) dell’aprile 1980. È boom anche delle quotazioni di materie prime come platino, argento, grano e rame, mentre l’oro è vicino ai 1.000 dollari l’oncia, una soglia psicologica importante anche se lontana dal record del 21 gennaio 1980, quando costava — in valuta odierna — 2.239 dollari. Intanto il tasso di aumento dei prezzi al consumo viaggia attorno al 4,3% annuo negli Usa e al 2,5% se si guarda all’indice «core» — senza prodotti alimentari ed energetici —, quello monitorato dalla Fed: un livello basso in assoluto, ma superiore all’ufficioso obbiettivo dell’1-2%.

Nell’Unione Europea l’inflazione è al 3,4%, la più alta da quando è stato introdotto l’euro, tanto da giustificare la decisione della Bce di non aver finora abbassato i tassi; e in Cina è arrivata al 7,1%, il massimo da 11 anni, diventando il problema numero uno del Paese secondo il primo ministro Wen Jiabao.

A spingere i prezzi all’insù è da una parte la forte domanda di materie prime da parte dei Pesi emergenti come la stessa Cina o l’India; ma dall’altra parte è sempre più considerata responsabile la Fed che con i suoi tagli dei tassi ha indebolito il dollaro e favorito i rincari, essendo denominati in dollari i prezzi del petrolio, dell’oro e delle altre commodity.

In gioco è la stessa credibilità dell’istituzione presieduta da Bernanke. «Una banca centrale indipendente dovrebbe mantenere il valore della moneta e prevenire l’inflazione — ha ricordato in un intervento sul Wall Street Journal Allan Meltzer, professore alla Carnegie Mellon e autore del nuovo libro «A History of the Federal Reserve» —. Negli anni settanta e di nuovo adesso i banchieri della Fed hanno promesso che avrebbero abbassato l’inflazione, ma appena il tasso di disoccupazione si è alzato un poco, le promesse sono state dimenticate. La gente ha capito presto che lo sforzo di evitare una possibile recessione aveva sopraffatto ogni preoccupazione sull’inflazione. Molti hanno concluso che i prezzi sarebbero saliti e che la Fed avrebbe fatto poco oltre le parole. I prezzi e i salari sono calati molto poco durante le recessioni. Il risultato è stato inflazione più crescita stagnante: stagflazione. Sta cominciando a succedere ancora».

In un recente discorso, anche Charles Plosser, presidente della Federal Reserve di Filadelfia, ha confermato che il rischio è reale: «Non possiamo credere che la crescita economica rallentata di inizio 2008 da sola ridurrà l’inflazione. Come ci insegna l’esperienza degli anni settanta, quando il pubblico perde la fiducia nell’impegno della Fed a mantenere la stabilità dei prezzi, riguadagnare quella fiducia nella Fed diventa poi molto costoso per l’economia».

Infatti per uscire dalla spirale alta inflazione e alta disoccupazione di 30 anni fa ci vollero il pugno di ferro del governatore della Fed Paul Volcker e la profonda recessione dell’81-’82: l’inflazione scese dal massimo del 13,5% dell’81 al 3,2% dell’83. E dall’85 sia l’economia Usa sia Wall Street iniziarono una lunga fase di crescita, con solo due brevi e lievi parentesi di frenata (’90-’91 e 2001).

Ma per la Fed e la Casa Bianca è difficile prendere misure impopolari proprio in un anno elettorale. Se davvero si verificherà uno scenario da stagflazione, nei prossimi mesi i consumatori avranno sempre meno soldi da spendere per i consumi non strettamente necessari, oltre al cibo e alla benzina; la Borsa continuerà a navigare nell’incertezza o peggio, mentre con l’inevitabile rialzo dei tassi risaliranno anche i rendimenti dei titoli obbligazionari a medio-lungo termine. Ecco perché i capitali parcheggiati prudentemente in liquidità sono a un livello record sia negli Usa (3 mila miliardi di dollari) sia nel mondo (nelle casse per esempio dei fondi sovrani).

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