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VOGLIONO SEQUESTRARE IL PATRIMONIO DI SILVIO

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(WSI) – Se tutto va come certi pm siciliani sognano vada, per Silvio Berlusconi l’aggressione al «patrimonio» di famiglia avvenuto con la condanna al risarcimento da 750 milioni di euro per il Lodo Mondadori, rischia di rappresentare uno sgradevole antipasto. Perché l’obiettivo finale che taluni magistrati si sarebbero prefissati inseguendo le parole dei pentiti e taluni flussi finanziari ritenuti sporchi, punterebbe a indagare il premier per concorso esterno in associazione mafiosa e poi, in tale veste, chiedere al tribunale l’immediata applicazione delle misure di prevenzione, personali e patrimoniali.

Con ciò arrivando al sequestro del suo intero patrimonio. L’abito criminale a cui si starebbe lavorando è lo stesso che anni fa si pensò di cucire su misura per il medesimo personaggio politico: quello della legge Rognoni-La Torre sulla confisca dei patrimoni dei boss. All’indagato per 416 bis possono essere infatti sequestrati, e successivamente confiscati, i beni di proprietà, e ciò indipendentemente dall’esito del procedimento penale.

Col risultato che se l’indagato per concorso esterno verrà assolto potrebbe vedersi comunque il patrimonio sequestrato nel caso in cui non riuscisse a dimostrare fino in fondo la provenienza lecita della stesso. Per legge oggi basta il «sospetto» che il capitale in oggetto sia di provenienza mafiosa. È necessario che sussistano meri «indizi» che il patrimonio s’è formato anche grazie all’apporto mafioso, indizi assemblabili con la chiamata in correità (non riscontrata) dei pentiti. Ma c’è di più. L’onere della prova non ricadrebbe sul pm bensì su Berlusconi: toccherebbe a lui dimostrare che ogni euro del suo capitale non s’è sporcato con Cosa nostra. In caso contrario, l’intero patrimonio risulterebbe aggredibile.

Seguendo questo percorso scatterebbero, come presupposto, anche le misure di prevenzione personali per sottoporlo a situazioni di limitazioni della libertà, ivi compreso il divieto «autorizzativo» che lo potrebbe privare finanche della possibilità di ricoprire incarichi pubblici o di svolgere l’attività di imprenditore. E se per la «patrimoniale» occorrono indizi sulla riconducibilità mafiosa dei soldi, per la «personale» bastano indizi ancora più blandi o semplici chiamate in correità, di quelle che abbondano al processo Dell’Utri o nelle indagini sulle stragi dal ’92 al ’94 aperte a Caltanissetta, Palermo e Firenze, dove l’argomento del giorno è sempre il Cavaliere. I pentiti, da Spatuzza a Grigoli, fanno a gara a parlare di Berlusconi «grazie al quale avevamo ottenuto tutto» (dice il primo) e di Dell’Utri, «il politico in contatto con Cosa nostra» (ribatte il secondo).

Proprio seguendo il filone finanziario, i pm di Firenze il 5 novembre scorso chiedono a Grigoli notizie sui «rapporti imprenditoriali» fra Dell’Utri e i boss Graviano trapiantati a Milano e ritenuti, dagli stessi collaboranti, i referenti diretti dell’attuale senatore del Pdl sotto processo a Palermo. Ossessivamente si stanno rileggendo atti già sconfessati, inerenti il «peccato originale». Cioè il presunto apporto «economico» della mafia alla nascente Forza Italia, atti disintegrati dai processi ma «riletti» sotto una nuova luce «finanziaria» che tiene conto di nuovi pentiti ma non dell’archiviazione a Caltanissetta dell’inchiesta per concorso in strage che vedeva indagati Berlusconi e Dell’Utri: ecco allora che si vanno a rispolverare verbali sui mai riscontrati rapporti «finanziari» di Berlusconi coi boss Bontade, Lo Iacono e Teresi, secondo le chiacchiere dei pentiti Cangemi, Di Carlo o Calderone.

Si riesumano i legami di Berlusconi, cessati nel 1973, con la Banca Rasini di Milano considerata solo dieci anni più tardi una lavanderia di denaro sporco; si rielaborano le risultanze del procedimento 6031/94 trasmigrate nel processo Dell’Utri per dimostrare una mai dimostrata ipotesi di riciclaggio finalizzata a coinvolgere Berlusconi; si cercano spunti all’originario rapporto del Ros di Caltanissetta del febbraio ’99 sulle 401 società riconducibili alla Fininvest; si ri-studia la perizia depositata al processo Dell’Utri su operazioni fra il Banco Ambrosiano di Calvi e la Fininvest Limited Gran Cayman; si lavora d’archivio soprattutto per un raccordo con l’attualità scaturita dalle dichiarazioni su Dell’Utri (e quindi Berlusconi) fatte da Massimo Ciancimino, figliolo di quell’ex sindaco mafioso di Palermo, don Vito, legatissimo all’imprenditore Zummo accusato recentemente dalla Dda di Palermo d’aver fatto sparire alle Bahamas parte del tesoro di Ciancimino senior quantificabile in 13 milioni di euro.

Riciclaggio, sospettano i pm, avvenuto con l’aiuto di Nicola Bravetti, socio fondatore della Banca Arner considerata dai pm l’istituto di credito della Fininvest, delle holding numerate dei figli del premier e del Cavaliere che vi ha personalmente depositato 60 milioni di euro. Per la cronaca, il pm che indaga sulla Arner è lo stesso che ha criticato il governo ad Annozero e che da mesi confessa il giovane Ciancimino dopo aver messo in croce il senatore Dell’Utri.

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Il fattore Spatuzza

di Concita De Gregorio

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(WSI) – La copertina dell’Unità che tanto ha fatto innervosire Berlusconi, quella del 15 novembre intitolata “I fantasmi del Premier” e dedicata a Spatuzza, è stata ieri di nuovo oggetto di telefonate da e verso palazzo Chigi. Il «fattore Spatuzza», lo scriveva Claudia Fusani dieci giorni fa citando le carte dei processi, preoccupa il capo del governo assai più del processo breve. È per questo che medita di «parlare agli italiani» (sarà un messaggio solenne a reti unificate, con la bandiera dietro? Sarà nella poltrona di Vespa?).

È per questo che i giornali di destra e/o quelli di sua proprietà fanno da giorni ironia preventiva, tecnica in uso anche fra i preadolescenti: «Vedrete, scriveranno che le rivelazioni di Spatuzza sono il tassello mancante alle indagini sui legami fra mafia e politica del ’93». Poi preventiva per modo di dire perché come si è visto chi ancora può scrivere liberamente lo ha fatto.

Oggi Susanna Turco ci informa che siccome – dice una fonte Pdl – «se è impresentabile un premier condannato in primo grado per corruzione, cosa potrebbe essere di un leader indagato per legami con la mafia?» allora torna l’ipotesi, circolata qualche tempo fa, di chiamare tutta l’alleanza all’appello con una mozione anti-magistratura da mettere ai voti in aula: chi sta con me e chi è contro. Questo mentre i magistrati (l’Anm) informano che col processo breve salterebbe un giudizio su due di quelli in corso.

Questo mentre Fini e i finiani sono già pesantemente sotto ricatto politico proprio sul fronte della lotta alla mafia. Sarà infatti impossibile, dice Angela Napoli e conferma Fabio Granata (entrambi ex An), che si possa votare l’emendamento che sopprime la norma della Finanziaria che mette in vendita i beni confiscati alla mafia. Napoli a Maria Zegarelli: «A parole dicono tutti di voler combattere la mafia ma nei fatti le cose stanno diversamente. La dimostrazione è nell’atteggiamento che ha la maggioranza del Pdl davanti a questo emendamento: non toccare neanche una virgola della Finanziaria».

Il ricatto è dunque questo: Finanziaria con voto di fiducia, e alla conta. Mafia o non mafia, An ingoi il rospo. Gianfranco Fini ha dunque deciso di giocare un’altra partita per cercare di contenere il danno. Ha posto una condizione per dare il via libera a un iter molto accelerato per il processo breve: che alla Giustizia vengano assegnati fondi aggiuntivi. Ha esposto la sua condizione personalmente a Tremonti: solo così quella legge potrà conservare una parvenza di riforma di sistema e diventare accettabile.

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