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Usa: consumatori aggressivi, investitori perplessi

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*Questo documento e’ stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist Kairos Partners SGR. ed e’ rivolto esclusivamente ad investitori istituzionali ovvero ad operatori qualificati, così come definiti nell’art. 31 del Regolamento Consob n° 11522 del 1° luglio 1998 e successive modifiche ed integrazioni. Le analisi qui pubblicate non implicano responsabilita’ alcuna per Wall Street Italia, che notoriamente non svolge alcuna attivita’ di trading e pubblica tali indicazioni a puro scopo informativo. Si prega di leggere, a questo proposito, il disclaimer ufficiale di WSI.

In America il giorno dell’anno in cui ci si riunisce con i parenti non è il Natale, ma il giovedì del Ringraziamento. A Natale i nonni sono in Florida a svernare oppure in Arizona a curare l’asma, mentre i figli, se possono permetterselo, sono in giro per il mondo. Thanksgiving è invece il giorno del raccoglimento e del ricongiungimento. Si sta in casa, si mangiano enormi tacchini ripieni, si fa festa e, come si usa tra parenti, dopo ore di chiacchiere qualcuno inizia a non poterne più o addirittura a litigare furiosamente.

Il giorno dopo, comprensibilmente, ci si precipita fuori casa per respirare aria fresca e ci si butta con voluttà nella mischia dello shopping, atto pagano liberatorio da una parte, atto economico razionale dall’altra, visti i forti sconti, ancora maggiori per gli early birds, quelli che si presentano nei centri commerciali nelle prime ore della mattinata. Nel 1966, a Filadelfia, gli ingorghi e il traffico furono tali che la polizia definì quel giorno un venerdì nero. Da allora Black Fridayè il nome della giornata nazionale dello shopping, quella in cui si registra il picco annuale dei consumi.

Quest’anno i centri commerciali apriranno per la prima volta il giovedì sera e resteranno aperti tutta la notte. Si attendono lunghe code e assalti all’arma bianca per la conquista degli articoli più ambiti. I consumi, da alcuni mesi, stanno andando piuttosto bene.
Quello che si dice poco, in queste ore, è che più i centri commerciali e i grandi magazzini saranno pieni più perderanno soldi. Dovranno pagare straordinari elevati per vendere merce ultrascontata e non si tratterà di saldi di fine stagione, ma delle novità più interessanti lanciate sul mercato in vista del Natale. Lo faranno per non farsi declassare immediatamente dagli analisti, per dimostrare che vendono molto, per non lasciarsi umiliare dai concorrenti. Un altro aspetto interessante è che gli unici che andranno sicuramente molto bene saranno i discount store, sempre più diffusi, sempre più grandi.

La Fata della Fiducia. Mentre l’Europa non tedesca si sente angosciata, depressa e priva di prospettive, l’America si sente incerta. La fiducia di consumatori e imprese non è bassa, ma potrebbe essere molto più alta se la politica non facesse di tutto per deprimerla.
L’incertezza si estende al concetto stesso di fiducia, alla sua importanza o meno per l’economia e al suo essere, per dirla all’italiana, di sinistra o di destra. Keynes la incluse tra gli spiriti animali. In polemica con l’antropologia dei neoclassici, che consideravano l’uomo come una macchina da calcolo razionale, valorizzò la pancia, gli umori, le speranze e le paure come elementi decisivi per fare precipitare una crisi, ma anche per uscirne.

Durante la presidenza di Obama i repubblicani hanno continuamente puntato il dito sulla sua incapacità di creare fiducia, sia per l’atteggiamento gelido nei confronti delle imprese sia per la presunta volontà di soffocarle attraverso regole sempre più complicate. Romney ha impostato su questo la sua campagna. Fatemi presidente, ha detto, e vedrete che la fiducia ritornerà su livelli tali da garantire da sola un’accelerazione della crescita.
Nel suo graffiante furore anti-repubblicano, il keynesiano Krugman ha ridicolizzato Romney presentandolo come il cantore della Fata della Fiducia, una sirena studiata per incantare gli allocchi. Facendo questo, Krugman ha sacrificato il Keynes degli spiriti animali per concentrarsi su quello dell’insufficiente domanda aggregata. Non con la fiducia si rilancia l’economia, ha detto, ma con la spesa pubblica.

Nel suo ultimo discorso Bernanke ha però ridato dignità e importanza alla fiducia. L’incertezza sul fiscal cliff (che concretamente è il non avere idea di quante tasse si dovranno pagare su tutto a partire dal primo gennaio) paralizza gli investimenti. Al contrario, un quadro certo di risanamento fiscale nel lungo periodo accompagnato da una mano molto leggera negli aggiustamenti immediati darebbe fiducia a tutti e potrebbe fare del 2013 un anno molto buono per l’economia americana. È raro sentire da Bernanke toni così appassionati.

Fiscal cliff. I politici americani sanno che gli elettori possono perdonare loro molte cose, ma non il rovinare un Thanksgiving, la sua serenità e il suo shopping, che dà il tono a tutto il Pil del quarto trimestre. Anche per questo (ma non solo) democratici e repubblicani, al loro primo incontro, hanno voluto mostrarsi aperti, fiduciosi e collaborativi, salvo rimandare al dopo Ringraziamento la discesa in quei dettagli in cui notoriamente si annida il diavolo.

Politico, uno dei siti più letti a Washington, sostiene però che le posizioni sono molto distanti. I repubblicani, che hanno per primi scoperto le loro carte, hanno deluso i democratici. Questi, a loro volta, sembrano quasi essersi dimenticati della loro parte di impegni, i tagli su pensione e sanità. Quelle che circolano sono idee minime, tanti piccoli tagli qua e là e la proposta di sempre, la deindicizzazione parziale delle pensioni.

In teoria di idee brillanti ce ne sarebbero. Sulle tasse, ad esempio, bisogna conciliare l’avversione repubblicana all’aumento delle aliquote (temperata dalla disponibilità a limitare le deduzioni) con la contrarietà democratica a toccare le deduzioni, molto care agli elettori (anche quelli ricchi) degli stati da loro controllati. Ecco allora rispuntare una vecchia idea di eliminare una piccola quota percentuale di deduzioni oltre una certa soglia di reddito, più elegante della proposta di Romney di mettere un limite massimo alle deduzioni. Quella che ancora manca, dunque, non è la capacità tecnica di trovare punti di perfetta equidistanza tra le posizioni, ma la volontà politica di arrivare a un compromesso e quella di superare le resistenze dei gruppi d’interesse coinvolti.

Wall Street. I mercati hanno preso alla lettera le dichiarazioni distensive successive al primo incontro, si sono calmati e hanno iniziato a scontare qualche settimana di discussione con un lieto fine garantito per Natale. Il posizionamento è quello di chi prevede un andamento piatto fino a metà dicembre, qualche giorno di volatilità, la firma dell’accordo (grande o piccolo in questo momento importa poco) e un rialzo negli ultimi giorni dell’anno che prosegue indisturbato in gennaio e (utili trimestrali permettendo) in febbraio.

Questa visione ha una certa logica, ma sottovaluta la volatilità che ci può essere già dalla prossima settimana. Non bisogna dimenticare che in un negoziato come quello sul fiscal cliff i politici sono osservati e giudicati da due tipi diversi di pubblico. Quello largo, gli elettori, tende a desiderare un compromesso ragionevole in tempi ravvicinati. Quello stretto, la base parlamentare e militante dei due partiti, chiede invece intransigenza (Krugman, per fare un esempio, si dice disposto ad accettare una recessione purché non si ceda terreno ai repubblicani).

I politici che negoziano, quindi, devono mostrarsi in generale concilianti, ma sono costretti di tanto in tanto a irrigidirsi per dare soddisfazione alla loro base. Anche ipotizzando il migliore dei negoziati possibili, dunque, ci saranno almeno una o due occasioni in cui le distanze dovranno sembrare incolmabili. Abbiamo l’impressione che un mercato a questi livelli resti vulnerabile a uno scenario di quasi rottura. Ricordiamo poi che se è vero che i mercati guardano i politici, è anche vero che i politici guardano i mercati. Vedere borse tranquille può indurre i negoziatori a prendere tempo e a irrigidirsi.

Che fare? Si può scommettere che vada bene, si può scommettere che vada male e si può non scommettere. Il fatto che l’America sia sì divisa, ma anche stanca, porta a puntare su un accordo. Poiché però siamo solo alle prime battute ci sembra sbagliato mettere sul tavolo tutto subito. Il rischio di comprare aggressivamente troppo presto è quello di spaventarsi (e quindi vendere male) se sopraggiunge qualche complicazione.

2013. Circolano due teorie. La prima è ottimista, ipotizza un buon accordo in America, un ritorno della fiducia, un boom dell’edilizia che si porta dietro una ripresa di occupazione, consumi e investimenti e si traduce, per citare Bernanke, in un anno molto buono. L’altra, pessimista, parla di trattative che si trascinano per mesi, di un clima sfilacciato, di tasse che salgono e di utili che hanno già iniziato a scendere e continueranno a declinare, regalandoci un 2013 con profitti più bassi rispetto al 2012. C’è del vero in entrambe le tesi, ma la nostra scommessa è che le trattative non dureranno troppo a lungo, gli aumenti di tasse saranno abbastanza contenuti e la ripresa dell’edilizia sarà un ottimo contrappeso. Quanto agli utili, una piccola erosione non è storicamente incompatibile con una prosecuzione di un bull market a bassa velocità a condizione che ci sia crescita.

Medio Oriente ed Europa. Non ne abbiamo parlato fin qui perché ci sembrano sullo sfondo, almeno per il momento. In Medio Oriente si incrociano diversi conflitti (sunniti/sciiti, Israele/Hamas-Iran, Fratelli Musulmani/monarchie sunnite) che al momento non mettono in discussione il petrolio.
L’Europa è uscita dalla sala di rianimazione grazie all’Omt di Draghi (vero o virtuale poco importa) e ne rimarrà fuori fino alle elezioni tedesche. Alla Grecia sono stati concessi (a caro prezzo) due anni di sopravvivenza e il problema, per il momento, è solo quello di come contabilizzare le perdite dei creditori. L’unione bancaria è già slittata al 2014. Come tutto il resto, probabilmente.

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