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UNA CAMPAGNA ELETTORALE APOCALITTICA

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(WSI) – «Dopo di noi il diluvio». Chi per un verso chi per l’altro, Silvio Berlusconi e Romano Prodi si palleggiano il ruolo che fu di Luigi XV di Francia nel dipingere i foschi scenari che attendono (in questo caso) l’Italia qualora si avverasse una vittoria elettorale del centrosinistra o, al contrario, una riconferma del centrodestra.

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I veleni che accompagnano la campagna elettorale italiana stanno creando un clima ai limiti della sopportabilità sia per i diretti protagonisti sia per chi è chiamato alle urne per scegliere l’uno o l’altro degli schieramenti. Gli osservatori parlano di una «distorsione apocalittica della lotta politica» (Pierluigi Battista), di una competizione elettorale «vissuta come una guerra civile simulata» (Paolo Franchi), di toni «da ultima spiaggia» (Angelo Panebianco). È vero, si è arrivati a tutto questo.

Ma che cosa rende diverso da altri il clima politico italiano che si respira particolarmente in questi giorni? Non certo l’emotività (tanto meno quella legata, secondo gli stereotipi, al «sangue caliente» degli italiani in quanto popolo latino), dal momento che è ormai universalmente riconosciuto (lo dice l’americano G.E. Marcus nel suo saggio «The Sentimental Citizen», Pennsylvania University Press, 2002) che il cittadino emotivo («sentimental») coesiste a pieno titolo con il cittadino «razionale» e dunque anche in politica la componente emotiva agisce di pari passo con quella «cognitiva».

Né si può spiegare con la disaffezione politica. Perché se è vero che dalla politica italiana di ieri così carica di emotività (le bandiere, i grandi raduni, l’entusiasmo per le utopie, le paure del comunismo e della guerra nucleare,la concretezza dello scontro della guerra fredda, il disgusto per Tangentopoli) si è poi passati ad una negazione della dimensione emotiva della politica, è altrettanto vero che mai come oggi emozioni e politica viaggiano in Italia strettamente a braccetto.

Lo sostiene, un po’ accademicamente ma non per questo senza spessore, una ricerca svolta dall’Itanes di Bologna («Sinistra e destra», Il Mulino, 2006) che mette in luce come il distacco dalla politica non ha coinvolto allo stesso modo tutti gli italiani. Anzi, la politica rimane oggi una fonte di identificazione per una parte non trascurabile di essi, in quanto «l’orientamento politico consente all’individuo di dire chi egli è, con chi condivide dei valori, e quindi di collocarsi in un punto non casuale di uno scenario strutturato di «ingroup» (categorie di cui sente di far parte) e «outgroup» (categorie che considera altro da sé)».

Inoltre la crisi della politica tradizionale ha messo sì in sordina i partiti ma ha dato massimo rilievo (e concretezza-visibilità agli occhi dei cittadini) ai leader, a forme di personalizzazione nelle quali le emozioni assumono un rilievo fondamentale. Determinante, a questo proposito, è il marketing politico,il quale ha scoperto che l’appello alle emozioni paga perché coinvolge anche chi si tiene lontano dalla politica.

Come ogni ricerca accademica che si rispetti, anche quella dell’Itanes approda a ben documentate conclusioni. Che sono: 1)le persone di sinistra appaiono più emotive di quelle di destra; 2) le emozioni più forti sono quelle negative e le emozioni più forti in assoluto sono quelle negative degli elettori di sinistra; 3)nell’attuale situazione italiana l’oggetto politico che catalizza su di sé l’emotività negativa è Silvio Berlusconi. A questo punto si aprono aspetti specifici della realtà politica italiana. Nello spiegare il fenomeno dell’avversione di massa per Berlusconi esistente nella sinistra (e la sua drammatizzazione) giocano tanti fattori, non ultimi quelli che Angelo Panebianco ha citato nel suo editoriale del 12 marzo sul Corriere della Sera.

Non c’entra, scrive Panebianco, il classico appiglio del conflitto d’interessi. Piuttosto, l’odio si spiega col fatto che «i ceti intellettuali italiani vedono in Berlusconi un concentrato dei più esecrabili vizi che essi imputano al capitalismo». Panebianco non ne parla, ma a creare difficoltà di dialogo con la controparte è non soltanto il fatto che una porzione consistente della sinistra italiana pensa se stessa come unica depositaria di una qualche superiorità morale, ma il vecchio costume della demonizzazione e delegittimazione dell’avversario continua oggi con Berlusconi, come, a ben vedere, fu a suo tempo con la DC, con Andreotti e con Craxi.

Rientra in scena Panebianco quando sostiene che un’altra ragione della dammatizzazione ha a che fare con un problema tipico della cultura politica italiana,ovvero la confusione che tanti tuttora fanno fra la democrazia e i loro personali valori e «confondere la vittoria o la sconfitta delle proprie idee politiche con la vittoria o la sconfitta della democrazia è una sorta di malattia infantile della stessa democrazia».

Elaborando la tesi di Panebianco, si potrebbe dire che a rendere la situazione italiana diversa da altre (e quindi più incandescente) è la convinzione, peraltro diffusa ormai in tutti e due gli schieramenti concorrenti, che l’altro non sia l’avversario ma il nemico. In quanto alla guerra civile simulata di cui parla ,sempre sul Corriere della Sera, Paolo Franchi, è risaputo che esistono precise ragioni storiche perché tale lotta non sia mai stata sopita: la secolare disgregazione dell’Italia, il conflitto tra Stato e Chiesa, un’ unificazione nazionale in parte forzata, la difficile costruzione di un’identità collettiva ,oltre alla frattura periodicamente creatasi tra «vincitori e vinti», tra laici e credenti, tra i nemici del fascismo come di quelli del comunismo. Il bipolarismo sembrava poter scongiurare tali inconciliabilità. I fatti dimostrano il contrario.

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