Società

UN MATTONE
SUL CORRIERE

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(WSI) – Ci risiamo con il Corriere della Sera. Tutti lo vogliono, tutti lo cercano, Corriere di qua, Corriere di là… Che sarà mai questo giornale per essere tanto desiderato, corteggiato, strapagato. L’ultima notizia è sorprendente. Il costruttoreimmobiliarista Ricucci ha rastrellato sul mercato una montagna di azioni Rcs ed è arrivato – come egli stesso annuncia trionfante – a quota 13 per cento.

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Quando sarà salito al 15, e il traguardo non è lontano, i soci del Patto di sindacato saranno costretti a sedersi al tavolo con lui a trattare. Cosa? L’azionariato del Corriere è diffuso. Una ammucchiata di notabili veri o presunti, ricchissimi o finti ricchi. Non conta. È un fatto che nessuno ha veramente in mano il pallino, e per tirare avanti la società ha dovuto raggruppare un certo numero di azionisti, stipulare un contratto e creare un programma. Un po’ come avviene nei governi basati su una coalizione. Risultato, un casino. Scusate se banalizzo, ma qui non preme filosofeggiare, bensì si tenta di comprendere quanto sta accadendo in via Solferino.

I nomi dei soci sono i medesimi che spiccano nel panorama finanziario e imprenditoriale italiano; gente che pretende di sedere nel salotto buono, e il Corriere – per chi non lo abbia frequentato – è il salotto dell’informazione più “alto”. Ovvio siano una moltitudine coloro i quali sperano di entrarci: piazzarsi vicino a Ligresti, Tronchetti Provera, Caltagirone, fior di banchieri eccetera eccetera fa status. Non solo. Il Corrierone è un simbolo oltre che un quotidiano storico. Succede inoltre che nelle famiglie numerose il tasso di litigiosità sia notevole, e quando bisogna assumere una decisione, per esempio nominare o licenziare un direttore, l’accordo è quasi impossibile. Lunghi negoziati. Discussioni interminabili. Veti incrociati. Alleanze sottobanco e sopra il banco. Problemi di equilibrio, interessi da conciliare, passioni personali, antipatie e simpatie. Intanto l’azienda giornale aspetta, viene dimenticata; il prodotto è l’ultima cosa considerata.

La premessa era necessaria per spiegare come mai l’irruzione sulla scena di Ricucci, dotato addirittura del 13 per cento, tale quale Mediobanca, abbia provocato un sisma, e ora tremino le gambe a numerosi protagonisti del gotha finanziario e giornalistico. Le domande sono parecchie. Chi è ‘sto Ricucci? Dove vuole arrivare? Che sia un prestanome? Chi gli sta dietro o di fianco o davanti? Pettegolezzi e moralismi parte, Ricucci è un tipo tosto. Poco conosciuto a Milano e forse nel resto d’Italia, è noto assai a Roma. È un emergente e un rampante. Ha soldi in abbondanza. Li ha fatti, si dice, da classico palazzinaro. Palazzinaro è brutto vocabolo, ha valenze negative, spregiative. Tuttavia il mattone è sempre stato un ottimo affare. Sia come sia, Ricucci è solido da alcuni anni. Prima non era un tubo. E questo rende ancora più appassionante la sua storia.

Non l’ho mai incontrato in vita mia sono obbligato a ricorrere ad alcune testimonianze. Nasce come odontotecnico. Un tempo si diceva meccanico dentista. Nel senso che non è dottore, non è un chirurgo della bocca; fa le dentiere. Ok. Faceva le dentiere; ha studiato in quel ramo lì. Registro un’altra voce: siccome coi denti era scarso oppure non aveva dimestichezza magari perché gli facevano ribrezzo, si è buttato nel trasporto su rotaia: tranviere. Non ci posso credere. Ma se anche così fosse, giù il cappello. Uno che passa dalle gengive alle rotaie e arriva davanti alla porta del consiglio d’amministrazione del Corriere (in veste di proprietario) non va preso sottogamba.

Nel nostro amato Paese chi viene dalle nebbie dell’anonimato è guardato di norma con sospetto; emarginato, rigettato. Ricucci non sfugge alla regola paesana. Fosse nato negli Stati Uniti sarebbe ammirato; direbbero di lui: però, che uomo, dal nulla al Corriere. Fategli un monumento in piazza. Il monumento per ora l’immobiliarista se lo sogna. Abbia pazienza. Se riuscirà a realizzare il suo piano, allora potrà aspirarci; un busto alla galleria dei grandi non gli sarà negato. Apparentemente la faccenda è complicata. Ricucci non è una semplice pedina, ma non è neppure solo, probabilmente.

Mettiamo abbia quale referente D’Alema. D’Alema significa Unipol, significa Coop, significa Monte dei Paschi di Siena. D’Alema significa Prodi, Prodi significa Bazoli (Banca Intesa) e Passera. Insomma significa sinistra. Fa ridere il sostantivo sinistra riferito a personaggi e manovre del genere; ma adesso è così. Conviene rassegnarsi al nuovo glossario, anzi alla nuova semantica. Progressista è sinonimo di antiberlusconiano se non proprio di neoreazionario; certamente è sinonimo di conservatore di origine o cattolica o marxista. In pratica. D’Alema è il terminale politico. Affidabile e intelligente, purtroppo. Banche e assicurazioni lo sostengono. Caltagirone (proprietario del Messaggero, su cui D’Alema scrive articoli, presumo non gratis, del Mattino di Napoli, del Quotidiano di Lecce, del Corriere Adriatico, azionista del Corriere della Sera, aspirante acquirente del Gazzettino di Venezia e palazzinaro di lusso) si aggancia alla cordata.

È evidente. Vi sono capitalisti previdenti. Annusano la vittoria dell’Unione e si apprestano ad appoggiare i futuri governanti allo scopo di esserne appoggiati. Do ut des, teoria vecchia quanto il mondo. Non c’è nulla di illegittimo, ma è meglio sapere. Berlusconi puntava al Corriere per non esserne infastidito, D’Alema si è mosso per anticiparlo e più efficacemente infastidirlo. E Ricucci? Dirige le danze. Si diverte come un matto a recitare in un ruolo per lui inconsueto: quello del Grande Compagno. Non è comunista. Figuriamoci. Come non lo è più D’Alema. Però in Italia, per avere un peso, o stai con Berlusconi (se vince) o stai con Prodi (se vince). La solita tecnica: il potere economico per conservare se stesso necessità di allearsi col potere politico; il colore del quale è secondario.

Prospettive. Ricucci, abbiamo detto, ha il 13 per cento e avrà presto il 15. A quel punto il patto di sindacato andrà revisionato. L’asse corrieresco, già pendente a sinistra, penderà in quella direzione ancor di più. E la rotta del transatlantico milanese sarà parallela a quella de “la Repubblica”. I due maggiori quotidiani nazionali saranno nelle mani dei progressisti.

Alla carovana vanno aggiunti: il Messaggero, la Stampa, il Sole 24 ore (Confindustria), il Mattino, i quotidiani della catena Espresso, la stampa cattolica e vari giornali minori, minori mica tanto. Non ci sarà foglio (esclusi Libero, il Giornale, il Tempo e pochi altri spiccioli di carta) antipatizzante per l’Unione. Se casomai Prodi tornasse a Palazzo Chigi, andrebbe collocata sul piatto gauchista anche la Rai. E al centrodestra rimarrebbero le tre reti Mediaset che, escluse alcune eccezioni, mandano prevalentemente in onda robaccia postcomunista perché paga di più in termini di audience. Ecco la frittatina che ci stanno per appiopare.

E la direzione del Corriere? Resterà saldamente in pugno a Paolo Mieli. Che è di sinistra per modo di dire, però è il solo in grado di portare a compimento la trasformazione del giornale da prodotto antiquato e noioso quanto la guida Monaci a prodotto moderno, a colori, formato ridotto (più maneggevole). Poi, scusate, come si fa a cacciare un direttore a pochi mesi dalla nomina e dopo averne cacciato un altro, Folli, senza contare l’allontanamento di De Bortoli?

Morale della favola. Berlusconi è persuaso che i quotidiani non valgano più; pensa sia molto più potente la tivù (che invece è solo una macchina pubblicitaria, cioè una macchina da soldi) e non si è mai impegnato ad acquistarne. La sinistra invece è convinta che la stampa formi l’opinione di chi conta (ed è capace di influenzare gli altri), così come è sempre stata convinta, gramscianamente parlando, che sia importante egemonizzare la magistratura, la scuola, l’università, il cinema, la cultura, le case editrici, l’arte, le corporazioni giornalistiche. Due modi diversi di leggere la realtà. Sta di fatto che gli ex comunisti e gregari si apprestano a occupare i pochi spazi che ancora non occupano.

Non so chi vincerà le elezioni. Qualcosa mi dice che Berlusconi è un gatto, non è mai morto perché ha sette vite, come dimostra la vicenda elettorale di Catania. Non è spacciato. Però è pericoloso, per lui, il suo cedimento sul fronte delle parole scritte. Stia più accorto. Finché ci sarà Mieli, che pure al Cavaliere sta sullo stomaco, il danno sarà relativo. Un domani, anzi, un dopodomani? Be’, merita un ragionamento approfondito.

Desidero chiudere con una nota corporativistica. Il guaio è che in Italia peggio dei giornalisti ci sono soltanto gli editori. Editori improvvisati. Scalatori. Cattivi imprenditori. Finanzieri che usano i giornali come mazze e li affidano a servi o a killer. Poi si dice che fanno schifo. Ovvio. La pulizia della casa dipende dal padrone non dalla governante. Non è finita qui. Torneremo sull’argomento.

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