Società

Tassazione rendite finanziarie: quello che il governo vi nasconde

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MILANO (WSI) – Capisco benissimo il fascino che possa suscitare udire che sarebbe giusto tassare i ricchi per dare ai poveri. E sarei anche d’accordo, se questo fosse possibile senza produrre ulteriori danni, rispetto allo sfascio prodotto in questi anni.

Ma, come sempre accade, la realtà è destinati a scontrarsi con i numeri. E i numeri non mentono.
Già in diversi articoli (QUI) abbiamo cercato di spiegare i motivi per i quali, finanziare il taglio delle tasse sul lavoro con l’aumento della tassazione delle rendite finanziare, costituisce una delle più volgari menzogne che si siano udite negli ultimi anni.

Il conto è presto fatto: gli ordini di grandezza sono talmente inconciliabili al punto che non si capisce come possa essere ridotta la tassazione sul lavoro, attraverso l’aumento del gettito dell’imposta sostitutiva su quelle che vengono chiamate rendite finanziarie , essendo, il gettito prodotto da questa imposizione, del tutto marginale rispetto alle entrate statali derivanti dalla tassazione sul lavoro.

Per questo, prima di abboccare agli slogan pubblicitari lanciati dal primo politicante di turno, sarebbe utile studiare (o quantomeno, leggere) i meccanismi che regolano la tassazione rendite finanziarie, magari derivanti dall’investimento in titoli di stato.

E qui potete trovare un documento, estratto dal sito del Dipartimento del Tesoro, che lo spiega in maniera esaustiva.

Il Regime Fiscale Dei Titoli Di Stato

Ora che avete letto il documento (almeno spero), avrete anche compreso come funziona la tassazione dei titoli di stato.

Per capire quanto potrebbe essere inconsistente il gettito ai fini della riduzione delle tasse sul lavoro, vi mancano appena un paio di dati.

Ad esempio, vi manca sapere che il flottante dei titoli di stato italiani ammonta a circa 1750 miliardi di euro. Altro dato che potrebbe interessarvi è la parte dello stock dei titoli di stato riconducibile ai privati, soggetti a imposta sostitutiva.

E questo grafico, anche se un po’ datato (solo qualche mese), può offrirne l’idea.

Fatti i dovuti conteggi, si scopre che le famiglie italiane detengono appena il 10% dei titoli di stato in circolazione. Pertanto il gettito che deriverebbe da un inasprimento dell’imposta sostitutiva sui titoli di stato, costituirebbe un valore inerziale ai fini dell’abbattimento dell’imposizione fiscale sul lavoro.

A meno che non si voglia standardizzare la tassazione di tutte le rendite finanziarie verso livelli ben più alti di quelli attuali, con tutte le conseguenze che ne deriverebbero, in termini distruttivi.

Sempre sul tema, al fine di approfondire l’argomento, vi propongo un ottimo contributo scritto dal bravo Vito Lops e pubblicato su Il Sole 24 Ore.:

“Se una signora anziana ha messo da parte 100 mila euro in Bot non credo che se le togli 25 o 30 euro ne avrà problemi di salute. Vediamo”. Così Delrio, nuovo sottosegretario alla presidenza del consiglio domenica 23 febbraio.

Ecco Delrio in una bella intervista al Sole 24 Ore, tre giorni dopo: “Né io né nessuno ha mai detto che tasseremo i BoT. Stiamo facendo una grande operazione di riduzione fiscale su lavoratori e imprese, se in questo ambito eleveremo la tassazione delle rendite finanziarie a livello europeo non credo sia uno scandalo. Ma l’intervento riguarderà solo i grandi risparmiatori, non le vecchiette con pochi BoT”.

Incrociando le dichiarazioni, sembra proprio che un paio di notti abbiano portato consiglio e che Delrio abbia abbassato il tiro sull’ipotesi di aumentare la tassazione per l’universo dei BoT people.

Sono state le polemiche a fargli cambiare il tiro? Magari sì, magari no. Potrebbe anche essere stato il fatto che è indispensabile andare, come sempre, più in profondità per capire quale sarebbe/sarebbe stato l’impatto di una misura così impopolare. Potrebbe infatti scatenare almeno tre effetti a catena.

1) In termini di rendite finanziarie l’ammontare dei titoli in circolazione (su cui maturano interessi debitori) vanno divisi tra “nettisti” e “lordisti”. I nettisti sono quelli che pagano la ritenuta sulla rendita alla fonte e quindi si vedono direttamente accreditata sul conto corrente la rendita decurtata in questo momento del 12,5% (l’intermediario funge da sostituto di imposta). I “lordisti” sono i grandi investitori istituzionali (banche, fondi, assicurazioni, ecc.) che non subiscono alcun prelievo alla fonte ma pagano le tasse in base a quanto i proventi finanziari incidono sul loro bilancio.

Questa categoria è INDIFFERENTE ALL’ALIQUOTA DECISA DALLO STATO ed è la fetta principale tra quelli che detengono il debito pubblico circolante (1.730 miliardi) dell’Italia. Si consideri che banche e assicurazioni italiane (i lordisti di casa nostra) ne detengono circa 800 miliardi e che gli investitori internazionali esteri (i lordisti esogeni) ne detengono circa 700 miliardi.

I nettisti italiani (le famiglie, i BoT people) ne hanno 183. In pratica l’innalzamento dell’aliquota sulle rendite finanziarie andrebbe a colpire unicamente i nettisti, ovvero le famiglie, ovvero coloro che detengono appena il 10% del debito italiano.

Quindi non sarebbe un granché in termini di entrata, ma piuttosto potrebbe agire da deterrente verso futuri investimenti da parte di una categoria – si pensi alle straordinarie adesioni al BTp Italia da parte delle famiglie nel 2011-2012 – che ha creduto e puntato sull’Italia in uno dei momenti peggiori della storia del debito pubblico.

2) Il secondo anello debole di un aumento dell’aliquota sulle rendite finanziarie è che questa potrebbe in ogni caso far diminuire la domanda sui titoli italiani. E di conseguenza far crescere i rendimenti per sopperire al calo della domanda. Tassi più alti equivalgono a interessi sul debito più alti. Il tutto rischierebbe di vanificare quindi il minimo gettito che deriverebbe da un aumento dell’aliquota sulle rendite dei bond governativi italiani.

3) Il terzo punto è che viviamo ormai in un mondo – quella della libera circolazione dei capitali – in cui i Paesi per reggere il meccanismo della moneta-debito sono vulnerabili ai flussi di capitale stranieri. Per cui l’asset più importante per un Paese è divenuto la sostenibilità potenziale del proprio debito. Se questa vacilla lo scotto da pagare è alto (come hanno dimostrato gli anni più bui dell’ultima crisi, con lo spread a 10 anni vicino a quota 600 e quello sui titoli a breve oltre 700 punti).Quindi prima di toccare le corde che regolano il debito pubblico è bene pensarci due volte. E forse questo che ha fatto Delrio dopo quelle prime dichiarazioni di una domenica che adesso non c’è più.

Il contenuto di questo articolo, pubblicato da Il contenuto di questo articolo, pubblicato da Vincitori e Vinti – che ringraziamo – esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

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