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SINISTRA NEOPAUPERISTA DESTRA NEOCAFONISTA

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(WSI) – Il rapporto tra denaro e potere provoca guasti opposti e complementari a governo e opposizione. Nessuno sa come si concluderà la vicenda D’Alema, querele a parte. Ma già si possono cominciare a inventariare i detriti che sta depositando. La sindrome neopauperista che in questi giorni dilaga e dilania il centrosinistra è forse il peggiore.

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Il neopauperismo, come tutte le forme di antipolitica applicate agli affari pubblici, immagina un sistema politico astratto, composto esclusivamente da individui probi, amministratori perfetti che depongono le armi dell’interesse personale per immolarsi al bene comune, soldati repubblicani che si nutrono di solo pane della propria «missione». Un paradiso dove le reti di clientele o il voto di scambio sono banditi come forme di impudicizia. La seconda Repubblica, nata sulle ceneri della degenerazione di tangentopoli, e il tema del berlusconismo hanno ulteriormente isterizzato questa visione.

Non ci si limita, come a suo tempo ha fatto Domenico Fisichella in Denaro e democrazia, a porre in termini problematici il «posto dei soldi» nella competizione elettorale, si vuole immunizzare lo spazio pubblico dalla contaminazione con il denaro. È questa, ad esempio, l’idea implicita di un libro come Il costo della democrazia di Cesare Salvi e Massimo Villone. Nessun cedimento è permesso, men che mai un barcone o il famigerato e costosissimo paio di scarpe artigianali che viene continuamente rinfacciato al presidente dei Ds: gli elettori non capiscono un politico postcomunista che corre appresso alle mollezze del lusso, è la spiegazione.

Le medesime critiche, anni fa, erano piovute su Giovanna Melandri e Fausto Bertinotti beccati a gustarsi i piatti di un gala del Gambero rosso. Può darsi che sia vero, ma a patto di non attaccare il carro del ragionamento ai buoi del moralismo, e far passare l’idea che la ricchezza non può entrare in politica, o che il buon politico è buono solo a patto di abitare con la numerosa prole in un bilocale di periferia. La riproposizione, sullo stile di Giorgio Bocca o Miriam Mafai, di un’immagine angelicata della condotta spartana dei vecchi dirigenti comunisti, ignora che la società italiana è cambiata, è cambiato l’elettorato della sinistra ed è cambiata la politica, che impone accanto a idee e programmi di curare anche l’immagine, la presentazione, l’appeal: le giacche lise e le scarpe bucate che piacciono ai neopauperisti appartengono a un’epoca passata, e hanno il sapore acido di una sorta di rigurgito di luteranesimo politico.

Il rifiuto del neopauperismo, però, non va confuso con l’accettazione acritica di un’altra sindrome, che oggi ha colto il centrodestra ma che in generale sembra colpire ogni volta che un partito va al governo: il neocafonismo. Che è l’altra faccia della medaglia della relazione patologica tra politica e denaro. Il Neocafone, in soldoni, è colui che non sa reggere la sfida delle lusinghe del potere che, inevitabilmente come le sirene di Odisseo, circuiscono l’uomo politico non appena entra a Palazzo (Chigi, Madama o Montecitorio è lo stesso). Il neocafonismo è il lusso vissuto con l’impaccio e la fame atavica di chi non è abituato a frequentarlo, e confonde la politica con un trampolino di lancio per l’ascesa sociale, la ripulitura del pedigree e la lievitazione del reddito.

La cronistoria degli oggetti di casa Billé è il capitolo più triste di questa malattia, che deposita detriti altrettanto pesanti, lardosi e antiestetici sul selciato della democrazia. Qui la questione morale o i profili penali c’entrano poco: il buon gusto sì, però. Il primo danno prodotto dal neocafonismo è la trasformazione del politico e degli appointed dalla politica in icone irraggiungibili, miraggi che si rinchiudono nelle triangolazioni tra potenti e spasimano per l’accreditamento nei circoli che contano (anche i circoli veri e propri: Canottieri, Tiro al volo…), nella foga di mostrarsi all’altezza dei «poteri forti». E perdono contatto con la realtà.

Nei primi mesi del governo Berlusconi Annalisa Terranova aveva scritto un’arguta fenomenologia del «codazzo»: il ministro al centro e tutt’intorno una pletora di portaborse, guardie del corpo, questuanti muniti di bigliettini e carte, telefonini che squillano, mani che si stringono, telecamere che riprendono. Brutte scene che si ripetono centinaia di volte ogni giorno. L’altro guasto è la briatorizzazione della vita politica, la sua trasformazione in un carosello ininterrotto di cene, feste, mondanità, auto blu, ristoranti alla moda e chef di rango, vestiti di sartoria, gipponi e gioielloni, biografie zuccherose scritte dai ghostwriter, sottopanza che scoprono i piaceri della vita, veline da sfondamento sottobraccio.

«Rovesciamento carnevalesco» l’ha definito Filippo Ceccarelli. Visioni trash che nulla hanno da invidiare all’Isola dei famosi o agli anelli di Costantino Vitagliano. La spettacolarizzazione della politica significa anche che pratiche un tempo considerate questioni di nessun peso oggi vanno a finire in prima pagina: nulla è più appetitoso della vita privata e del tempo libero dei politici. E il Neocafone mobilita nell’opinione pubblica due sentimenti: nel breve periodo, in alcuni, l’invidia; nel lungo periodo, in tutti, il rigetto. Tanto è indisponente lo zelo neopauperista, tanto è irritante lo sbraco neocafonista.

La campagna elettorale che si sta approssimando, vista la probabile latitanza di grandi scontri programmatici, darà grande spazio a temi come lo stile politico o l’immagine. Per cui un ritorno alla sobrietà, massima forma di eleganza, non è un optional, ma il migliore viatico per uscire da Palazzo e tornare alle cose del mondo.

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