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SFIDA DI RUPERT MURDOCH AL NEW YORK TIMES

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(WSI) – Una giornatina mica male per Rupert Murdoch, il magnate australiano dei media che possiede televisioni, giornali, riviste, case editrici, satelliti e siti Internet in tutto il mondo per un valore di oltre 60 miliardi di dollari. In poche ore, Murdoch ha cambiato il direttore del Wall Street Journal, sostituendolo con un australiano suo fedelissimo, proprio il giorno successivo all’annuncio di una rivoluzione editoriale che sta già cominciando a cambiare la faccia al più importante giornale finanziario. Subito dopo ha trovato un accordo con il Chicago Tribune per comprarsi Newsday, il quotidiano dell’area metropolitana di New York e il decimo giornale più venduto d’America, alla cifra di 580 milioni di dollari.

La mossa è chiara, l’obiettivo pure, l’esito incerto: Murdoch ha accelerato l’entusiasmante sfida del suo Wall Street Journal al New York Times per il ruolo di giornale più importante d’America. Due milioni di copie vendute negli Stati Uniti, contro il milione del Times, il Wall Street Journal vende altre 80 mila copie con l’edizione europea (circa ottomila in Italia) e 100 mila in Asia.

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Al New York Times cominciano a sudare freddo. L’ultimo trimestre è stato disastroso, con un perdita di 300 mila dollari e un calo di pubblicità dell’11 per cento che potrà essere ancora più evidente se, come si dice nei corridoi del Times, Murdoch comincerà a vendere le pagine pubblicitarie del Journal a prezzi più bassi. Il Times sta tagliando un centinaio di posti in redazione, il sito Internet è un gioiello ma non produce utili sufficienti a colmare gli squarci aperti dalla crisi della carta stampata. La famiglia Sulzberger, proprietaria del Times, non è solida come una volta e si moltiplicano le voci di possibili scalate ostili. E’ circolata l’idea di un intervento di Mike Bloomberg, altro magnate dei media e sindaco di New York, ma l’interessato ha smentito, malgrado le pressioni dei suoi consiglieri a “salvare il Times” tengano aperta la possibilità.

Sistemato nella nuova torre di Renzo Piano sull’ottava avenue di Manhattan, il giornale ora si trova accerchiato dal gruppo Murdoch che, senza problemi di bilanciamento dei conti, in città già possiede il Wall Street Journal, il tabloid New York Post, a breve, anche il popolare Newsday.

La strategia di Murdoch anti New York Times ricorda quella alla base del successo di Fox News, la televisione all news via cavo che in pochi anni è riuscita a sorpassare la Cnn. A metà ottobre, Murdoch ha fondato anche Fox Business, con l’aggressivo obiettivo di scalfire il ruolo dominante della Cnbc – di proprietà della Nbc, quindi della General Electric – nell’informazione finanziaria televisiva.

La guerra è cominciata all’istante, con la risoluzione del contratto di collaborazione tra Journal e Cnbc e il trasferimento dell’autorevole marchio WSJ sugli schermi di Fox Business.

Il gruppo Murdoch, News Corp., fa i soldi con la televisione, il cinema, il satellite, i libri e Internet, ma con i giornali va meno bene. In America, oltre che del Journal e del New York Post, Murdoch è proprietario del piccolo Weekly Standard. In Gran Bretagna del Times e del Sun, in Australia e in Asia di una serie di giornali nazionali e regionali. Salvo eccezioni, i gioielli della sua corona cartacea sono in perdita, ma Murdoch adora la carta stampata, è figlio di un giornalista di Adelaide, in Australia. I giornali sono la sua vita, la sua passione e continua, in controtendenza, a considerarli uno straordinario strumento di potere.

Settantasette anni, sposato tre volte, sei figli, Murdoch non ha nessuna intenzione di ritirarsi e di lasciare l’impero a suo figlio James. La sua sfida, ora, è quella di conquistare il mercato dell’autorevolezza. Quattro mesi fa ha comprato per oltre cinque miliardi di dollari il Wall Street Journal, fiutando la possibilità di diventare non solo l’editore più grande del mondo, ma anche quello del giornale che con qualche aggiustamento potrebbe diventare il più autorevole e influente.

L’idea è di trasformare il Journal da quotidiano prettamente economico e finanziario in giornale più generalista, attento alle questioni politiche e culturali. L’ostacolo è il New York Times.
Marcus Brauchli era il direttore fino a ieri, il giovane uomo macchina che rappresentava la transizione e la continuità. Fonti interne al giornale di Wall Street raccontano al Foglio di varie incomprensioni tra il direttore e il proprietario sulla riorganizzazione del giornale sulla natura degli articoli, sul numero dei giornalisti, ma ieri con una mail alla redazione, il direttore ha assicurato di aver lasciato d’accordo con la proprietà. Resta che Murdoch metteva fretta e che Brauchli provava a mantenere la calma. In redazione ora hanno il timore che la cura Murdoch possa far perdere originalità, accuratezza e qualità al giornale: “Stiamo scimmiottando il New York Times nella parte politica e il Financial Times in quella finanziaria”, ha detto al Foglio un giornalista del Journal.

I primi giorni, però, promettono bene: gli articoli politici di prima pagina sono lunghi, approfonditi e originali (uno scoop del Journal sulle attività professionali dello stratega di Hillary Clinton, Mark Penn, in contrasto con la campagna della senatrice, ha costretto Penn alle dimissioni). Le pagine degli editoriali, fiore all’occhiello del mondo conservatore americano, sono state rinnovate e arricchite con voci super liberal come Thomas Frank e nuovi opinionisti come l’ex speechwriter di Bush William McGurn. La trasformazione sarà completata in autunno, con un inserto culturale, un settimanale patinato (WSJ) e una pagina sportiva. Murdoch ora ha messo a dirigere il giornale, temporaneamente, l’editore incaricato Robert Thomson, ex direttore del Times di Londra e già molto attivo nella fattura del Journal.

L’era Murdoch è cominciata ufficialmente ieri. E non è un caso che, proprio ieri, il giornale ha pubblicato un articolo di Murdoch (vicino a un’opinione di Gianni Riotta sull’Italia) a favore dell’allargamento della Nato a Giappone, Israele e Australia, in modo da trasformarla in un’alleanza di nazioni che si battono per difendere gli stessi valori di libertà.

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