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SENTIMENT DEI MERCATI: PAURA E NOIA

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(WSI) – Lars Svendsen è un giovane filosofo norvegese che insegna a Bergen. In italiano sono stati tradotti tre suoi libri, tra cui Filosofia della noia (2004) e Filosofia della paura (2010). Svendsen nota che noia e paura sono state presenti in molte epoche storiche (soprattutto la paura, a dire il vero) ma che è una peculiarità del mondo contemporaneo che siano presenti insieme. La paura, se non altro, dovrebbe far passare la noia e invece noi viviamo l’una e l’altra non a fasi alterne, ma simultaneamente, tanto da farne le sensazioni dominanti della nostra vita quotidiana.

Abbiamo paura, dice Svendsen, ma in realtà sopravvalutiamo i pericoli, perché alle nostre latitudini il mondo non è mai stato tanto sicuro come oggi. La paura di qualcosa che poi non si materializza, ma che rimane comunque sullo sfondo, alla fine produce la noia. La noia, a sua volta, è uno stato di malessere sul quale qualsiasi paura può crescere meglio.

Sui mercati il profilarsi di un nuovo pericolo produce un’avversione improvvisa al rischio e quindi un ribasso dei corsi. Una volta vendute le posizioni in eccesso e riportato il portafoglio alla configurazione che permette di dormire la notte, se i pericoli non si materializzano immediatamente la paura non scompare (il problema non è stato risolto, è solo scivolato leggermente sullo sfondo) ma inizia ad accompagnarsi alla noia.

Paura e noia descrivono bene la situazione di questi giorni su borse, materie prime e tassi. Dopo avere pensato che il default greco fosse questione di minuti, che il contagio a Spagna e Portogallo fosse questione di ore e la deflagrazione completa di Eurolandia fosse questione di giorni ci si è resi conto di avere dato per morto un paziente che deve solo cambiare stile di vita, come hanno fatto in tanti prima di lui. Il cambiamento di stile di vita, naturalmente, non produce una guarigione in pochi minuti. Richiede anni, pazienza, impegno, aiuto da parte degli altri. In più nessun malato segue al cento per cento le prescrizioni dei medici, figuriamoci la Grecia. Lo spazio per la paura, quindi, rimane, ma se ne aggiunge dell’altro per la stanchezza e per la noia per l’attesa di risultati.

La stessa cosa sta avvenendo per la seconda ondata di paura, quella sulla sostenibilità del disavanzo americano, immediatamente subentrata ai timori sulla Grecia. C’è una fioritura di studi giustamente preoccupati (molto chiaro e conciso quello di Cecchetti et al. reperibile sul sito della Bri) e c’è un gran discutere. Nell’audizione di Bernanke di ieri in Congresso una domanda su due è stata sulle prospettive del debito pubblico. Praticamente tutti, da Bernanke ai repubblicani ai democratici, hanno convenuto sull’estrema serietà del problema.

Si sta facendo qualcosa per affrontarlo? No, per quattro motivi. Il primo è che il quadro macro è ancora molto fragile e sarebbe pericoloso cominciare adesso a tagliare spese a aumentare le tasse. Il secondo è che a novembre si vota e a nessun politico passerebbe mai per la testa di promuovere azioni concrete di risanamento. Il terzo è che non ci sono segni di rigetto da parte dei compratori di Treasuries. Il quarto è che la malattia americana è ancora asintomatica. Come sanno fumatori, mangiatori e bevitori, ogni giorno in più di vizio aumenta in modo esponenziale il conto finale da pagare, ma finché non si soffre non si fa oggi quello che si potrà fare domani. Alla fine, visto dai mercati, il tutto si traduce in paura, perché il problema si aggrava ogni giorno, ma anche in noia, perché in pratica non succede nulla.

Ci si può chiedere come andrà a finire questa vicenda, che ci terrà comunque occupati per i prossimi due decenni. Vanno scartate le due ipotesi estreme. Non ci sarà una soluzione virtuosa, fatta di modifiche strutturali immediate (come l’aumento dell’età per andare in pensione o un ticket importante per le prestazioni sanitarie o ancora il pay as you go, in base al quale si vara una misura di spesa solo se contemporaneamente si decide un taglio da qualche altra parte).

Non ci sarà però nemmeno una deflagrazione catastrofica finale in stile argentino. Rogoff continua a dire che ci saranno molti default sovrani, ma ai grandi paesi sviluppati questa sorte sarà con ogni probabilità risparmiata.

L’esito più realistico è che non si faccia assolutamente nulla, se non discutere e mettere in piedi commissioni, per tutto quest’anno e forse anche per il prossimo e magari anche oltre. L’inflazione, infatti, continuerà a scendere nei prossimi mesi e i mercati non avranno pretesti concreti per richiedere tassi reali molto più alti degli attuali.

Più avanti però, ben prima di quel 2020 che viene considerato il punto di non ritorno per una soluzione non traumatica e drammatica, i mercati decideranno di valorizzare al massimo qualsiasi incidente di percorso, sia questo un inizio di rialzo anche modesto dell’inflazione, uno shock esogeno da offerta su qualche materia prima, un qualsiasi segno di disaffezione da parte dei sottoscrittori abituali di debito pubblico americano o anche solo un’espressione di malumore da parte della Fed.

La vicenda greca indica come potrà andare anche negli Stati Uniti. La Grecia non ha fatto e non farà default ma ha trovato la forza per affrontare seriamente i suoi problemi solo quando la pressione dei mercati e dei partner europei ha raggiunto un livello molto elevato. I politici americani di tutti i colori, quando una crisi di mercato darà loro la forza per farlo, passeranno rapidamente (e in tempo utile) dalle parole ai fatti. La Fed, dal canto suo, garantirà tutta la collaborazione monetaria, doverosa quando si procede a severi tagli fiscali.

Per quest’anno, si diceva, la crisi fiscale continuerà a cuocere a fuoco lento. Wall Street continuerà a fare molta fatica a scendere seriamente perché i dati macro e quelli sugli utili non glielo permetteranno. Le paure sulla crisi fiscale sono giustificate, ma sono anche indeterminate. Non vaghe, attenzione, ma indeterminate sui tempi. I dati duri macro, per contro, sono precisi, quotidiani e determinati e non li si può ignorare troppo a lungo. Si dirà che i dati macro non sono poi così positivi. E’ vero, ma non nel senso che sono mediocri bensì nel fatto che sono polarizzati.

Sono tornati negativi, anche se in modo contenuto, tutti i dati sull’immobiliare (residenziale, commerciale, prezzi, transazioni). Ristagna l’occupazione. E’ in deterioramento evidente la fiducia dei consumatori. L’Europa, dal canto suo, continua a deludere.

E’ però anche vero che se si guardano i dati sulle case normalizzandoli, eliminando cioè l’effetto durato qualche mese degli incentivi fiscali all’acquisto, si vede un trend negativo sempre meno marcato. Quanto alla fiducia dei consumatori, è noto che si tratta dell’indicatore più ritardato di tutti. Venendo poi all’Europa, sepolta sotto la neve di gennaio che ha coperto e bloccato la Germania e i suoi cantieri c’è una ripresa delle esportazioni incoraggiante e non necessariamente passeggera, visto l’euro sempre più debole.

Accanto a questi dati ce ne sono altri, quelli che contano di più, che sono sicuramente positivi. Non sono solo quelli sulla produzione, per i quali si può malignare e disquisire su quanto siano drogati dalla ricostituzione delle scorte. Sono anche quelli sugli investimenti in tecnologia e macchinari, in piena smentita (come nota un interessante studio di Bank of America) di quanti sostenevano che il grande numero di fabbriche ferme e pronte per il riutilizzo avrebbe disincentivato qualsiasi nuovo investimento produttivo.

Abbiamo iniziato con due libri su noia e paura nel presente e concludiamo con altri due che le studiano nel passato prossimo. Nella sua Storia della paura tra Otto e Novecento (2008) Gianni Silei decostruisce l’idea della Belle Epoque come età di ottimismo e fiducia nel progresso raccontandone le paure e le paranoie diffuse a tutti i livelli (pericolo giallo, paura degli ebrei, della rivoluzione, dei poveri, delle nuove tecnologie, della criminalità e delle epidemie) e il rifugiarsi nell’occultismo e nelle pratiche magiche anche da parte delle classi alte.

Lo storico inglese Richard Overy in The Morbid Age (2009) mostra invece come l’apogeo dell’Impero britannico abbia coinciso, tra gli anni Venti e Trenta del secolo scorso, con uno stato di malessere e di paure profonde non solo di una nuova guerra, ma anche di una decadenza morale e spirituale. Oggi noi abbiamo paure per il clima, gli inglesi e gli europei di quegli anni (anche in ambiti progressisti e socialdemocratici) avevano ossessioni che oggi chiameremmo biopolitiche di decadimento della razza e di estinzione.

L’insegnamento che possiamo trarne è che molte paure sono senza fondamento. Quelle poche che invece si rivelano corrette si materializzano in tempi molto più lunghi di quelli ipotizzati (la rivoluzione nel 1917, l’influenza nel 1919 e la guerra nel 1939).

Quanti oggi sui mercati ipotizzano e paventano una ripresa dell’inflazione e un rialzo dei tassi avranno sicuramente ragione (con entrambi a zero è la previsione più facile del mondo e quindi anche la più inutile). Anche loro, però, dovranno aspettare più a lungo di quanto pensano.

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*Questo documento e’ stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist Kairos Partners SGR. ed e’ rivolto esclusivamente ad investitori istituzionali ovvero ad operatori qualificati, così come definiti nell’art. 31 del Regolamento Consob n° 11522 del 1° luglio 1998 e successive modifiche ed integrazioni. Le analisi qui pubblicate non implicano responsabilita’ alcuna per Wall Street Italia, che notoriamente non svolge alcuna attivita’ di trading e pubblica tali indicazioni a puro scopo informativo. Si prega di leggere, a questo proposito, il disclaimer ufficiale di WSI.