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SCUDO 3, RIPARTE LA STAGIONE DEI CONDONI

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(WSI) – Torna lo scudo fiscale, il numero tre della serie inaugurata da Giulio Tremonti, ministro dell’economia anche allora, nel 2002. Il provvedimento è in rampa di lancio, si limano le aliquote e i meccanismi. L’obiettivo dichiarato è favorire il rientro dei capitali illecitamente esportati e grazie ad essi ridare fiato all’economia italiana provatissima dalla crisi. Quello dichiarato meno, ma sostanziale, è fare cassa, far entrare nelle casse del Tesoro, esauste anch’esse, qualche miliardo di euro per finanziare la ricostruzione dell’Abruzzo.

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In effetti l’affare, per il Tesoro, potrebbe essere grosso. Il paese del capitalismo senza capitali è in realtà il paese del capitalismo con i capitali all’estero. Ce ne sono per 550 miliardi di euro, usciti illegalmente per sfuggire all’attenzione del fisco o per nascondere il frutto della corruzione e di attività criminali, due malattie endemiche mai curate della società italiana. In passato, quando la circolazione internazionale dei capitali e le possibilità d’investimento erano assai più limitate di adesso, fuggivano anche dalla lira, con la sua inflazione e le sue svalutazioni, fuggivano per la paura del comunismo, fuggivano dal clima torrido del terrorismo e dei sequestri di persona, talvolta seguiti oltre confine da intere famiglie.
L’Italia, di capitali esportati illegalmente, sembra averne accumulati più di altri in proporzione alla dimensione della sua economia. I francesi per esempio, pare che di miliardi ne abbiano esportati cento e, secondo Global Wealth 2008 pubblicato lo scorso anno da Boston Consulting Group, nel mondo i capitali esportati illegalmente dovrebbero ammontare a 7 mila 500 miliardi di dollari, circa 6 mila miliardi di euro. I 550 miliardi di euro esportati dagli italiani sono quasi il 10 per cento del totale stimato, contro una economia che conta circa il 3 per cento del pil planetario. Di questi 550 miliardi, 300 sarebbero in Svizzera, 100 in Lussemburgo, una quarantina a Montecarlo, e gli altri sparsi tra i tanti, troppi paradisi fiscali del pianeta. Tanti soldi, un terzo del prodotto lordo e poco meno di un terzo del debito pubblico, miliardi che se fossero impiegati in attività domestiche lecite sarebbero un motore formidabile per la nostra economia.
Si è già provato due volte a farli rientrare, con le operazioni Scudo Fiscale 1 e 2 (in realtà una proroga del primo), che ebbero un discreto successo facendo emergere in totale 73,1 miliardi di euro tra il 2002 e il 2003. Di questi solo poco più di 43 rientrarono effettivamente mentre 29,9 furono ‘regolarizzati’ rimanendo nelle banche estere che già cortesemente li ospitavano. Si disse allora che quei capitali rientrati avrebbero sostenuto la crescita dell’economia, ma negli anni successivi il pil crebbe poco o niente smentendo quella previsione. Finirono solo per il 10 per cento secondo alcune stime alle imprese, per metà a gonfiare i prezzi del mercato immobiliare, un po’ in beni di lusso mentre il resto riprese la strada dell’estero ripercorrendo a ritroso quella dalla quale erano arrivati.
Lo stato ci guadagnò, 1,1 miliardi di entrate fiscali straordinarie solo con lo Scudo Fiscale 1, grazie ad una generosa (per gli evasori) aliquota del 2,5 per cento da questi pagata in cambio di un condono tombale sui comportamenti fiscali pregressi e la garanzia assoluta dell’anonimato.
Oggi il clima è cambiato. La campagna contro i paradisi fiscali e il segreto bancario, soprattutto dopo il G20 del 2 aprile scorso a Londra, ha preso un po’ di vigore e, dice Pier Carlo Padoan, il vice segretario generale dell’Ocse, l’organismo al quale è stato affidato il coordinamento di questa battaglia, «nelle ultime settimane sono stati fatti avanti passi giganteschi dopo anni e anni di risultati assai magri». I fortilizi del segreto bancario iniziano a mostrare qualche crepa e gli esportatori di capitali qualche paura cominciano ad averla. Dall’altra parte c’è la crisi, la mancanza di liquidità che assedia le aziende e gli imprenditori, che di fronte ad un credito difficile da trovare e comunque assai costoso potrebbero essere tentati di far rientrare i loro soldi per metterne almeno un po’ al servizio della sopravvivenza delle loro imprese.
«Per essere un successo questa volta di miliardi ne dovrebbero rientrare almeno 100150 dice Marco Cascino, amministratore delegato di Cordusio Fiduciaria (gruppo Unicredit) e le fiduciarie sono pronte a fare la loro parte, così come avvenne nelle operazioni precedenti». Con gli scudi 1 e 2 passarono attraverso sei fiduciarie oltre 30 miliardi di euro. «Allora come ora la fiduciaria è considerata lo strumento attraverso il quale gestire il procedimento spiega Cascino perché è un servizio amministrativo che si concentra in un unico ufficio e garantisce efficienza e certezza fiscale agendo come sostituto d’imposta». Cordusio Fiduciaria è la prima del settore in Italia e insieme a Sirefid Fiduciaria e San Paolo Fiduciaria, ambedue del gruppo Intesa San Paolo, e Ubs Fiduciaria, copre un terzo del mercato.
L’Ocse ha fatto un’analisi attenta dei provvedimenti presi da vari paesi per favorire l’emersione dei capitali illecitamente esportati, verificando quali sono risultati più efficaci e quali meno. «Ne sono emersi quattro fattori che rendono le misure più efficaci dice Padoan il primo è l’esistenza di un’amministrazione fiscale efficiente, tale cioè da garantire una elevata fedeltà fiscale; il secondo, che si collega al primo, è che ci sia un rischio credibile di essere scoperti; il terzo, poiché oltre al bastone ci serve anche la carota, è che ci siano incentivi positivi, ovvero penalità ridotte e aliquote interessanti; il quarto è che ci sia una precisa scadenza».
Sui primi due fattori o meglio sulla determinazione politica a farli funzionare, l’Italia non sembra poter contare. Gli altri sono, in questi giorni di attesa, il punto cruciale. L’aliquota, secondo l’opinione più diffusa, sarà significativamente più alta dello scandaloso 2,5 per cento degli scudi precedenti. Si parla di un livello tra il 7 e il 10 per cento. Quanto alle penalità la generosità sarà massima, condono totale e tombale, accompagnato dall’anonimato.
Ma se l’aliquota è importante per far lievitare le quantità e per gli introiti dello stato, non è tuttavia l’unico punto sotto esame. Si vorrebbe infatti innanzitutto che questi soldi rientrassero effettivamente in Italia e qui restassero, e poi che venissero impiegati per sostenere il debito pubblico e il sistema delle imprese. Obiettivi interessanti ma non facili da perseguire. Per quanto riguarda il primo c’è l’ipotesi di prevedere lo scudo solo per i capitali che rientrano e non per quelli che ‘emergono’ pur rimanendo all’estero oppure, in alternativa, di fissare un’aliquota più conveniente per quelli che effettivamente tornano in patria. Per il secondo sono stati ipotizzati incentivi per spingere quei capitali verso destinazioni specifiche, per esempio una emissione speciale “Abruzzo” di titoli di stato oppure la ricapitalizzazione delle imprese.
Il problema, in tutti e due i casi è l’atteggiamento di Bruxelles, che riconosce la sovranità fiscale di ciascun paese e quindi non discute le aliquote e le modalità che ciascuno ritiene di adottare, ma è molto attenta alla libera circolazione dei capitali e contraria a provvedimenti che la limitino o distorcano il mercato. Alla destinazione incentivata dei capitali rientrati verso le aziende osta poi il requisito dell’anonimato, al quale nessuno vuole rinunciare. Quello che si può ipotizzare quindi è al massimo la creazione di un fondo che investa nel capitale o in titoli obbligazionari italiani ed europei, l’adesione al quale potrebbe essere fiscalmente incentivata.
Il problema vero, quello della cultura della legalità fiscale, quello che rende impossibile a governi come quelli di Francia o Germania solo proporre il rientro di capitali con un’aliquota bassa e un condono sul passato, in Italia non è considerato tale. Di condoni e capitali all’estero, in fondo, siamo i campioni.

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