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Scoperta la galassia più lontana, fa luce sul passato dell’universo

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Roma – È una galassia lontanissima, a 13,2 miliardi di anni luce da noi, osservata cioè quando l’Universo aveva “solo” 490 milioni di anni. In altre parole, meno del 4 per cento dell’età attuale dell’universo, che è stimata in 13.7 miliardi di anni.

A scoprire questo antichissimo oggetto celeste sono stati i ricercatori che collaborano al progetto di ricerca Clash (Cluster Lensing And Supernova survey with Hubble) a cui partecipano astronomi Inaf attraverso due programmi Prin coordinati da Massimo Meneghetti (Inaf – Osservatorio Astronomico di Bologna) e da Mario Nonino (Inaf – Osservatorio Astronomico di Trieste).

La galassia è stata individuata dietro il gigantesco ammasso di galassie denominato “MACS1149+2223” grazie alle riprese dei telescopi spaziali Hubble e Spitzer sfruttando il fenomeno della lente gravitazionale forte. Un effetto predetto dalla Teoria della Relatività Generale di Einstein, secondo cui la materia contenuta nelle strutture cosmiche è in grado di curvare la traiettoria di fotoni provenienti da sorgenti più lontane.

L’ammasso “MACS1149+2223”, che possiede una massa di circa 2,5 milioni di miliardi di volte quella del Sole, si è trasformato così in un vero e proprio telescopio gravitazionale, permettendo di focalizzare la tenue luce proveniente da una galassia molto più distante che si trova lungo la nostra linea di vista, amplificandola di ben 15 volte e permettendo così agli strumenti dei telescopi spaziali Hubble e Spitzer di individuarla. La scelta di osservare e studiare gli effetti della Relatività Generale in corrispondenza degli ammassi di galassie non è casuale. Tanto più grande è la massa, tanto maggiore è l’effetto di lente gravitazionale.

Gli ammassi di galassie sono le più grandi strutture cosmiche nell’Universo e possono contenere, come in questo caso, fino a diversi milioni di miliardi di masse solari. Si tratta quindi delle più potenti lenti gravitazionali osservabili in cielo, che a volte producono delle forti distorsioni nelle immagini di galassie lontane, che possono per questo motivo essere viste come archi gravitazionali, o in altri casi, come gruppi di immagini multiple.

«Quando vengono osservate queste distorsioni, esse possono essere utilizzate per capire come è distribuita la materia nella lente» ha sottolineato Massimo Meneghetti.

«Tuttavia il lensing gravitazionale è importante anche per un altro motivo: amplifica sorgenti lontane e intrinsecamente molto deboli, rendendole più facilmente osservabili. Ciò è dovuto al fatto che la lente modifica la forma intrinseca dalla sorgente e l’area che essa occupa in cielo ma mantiene inalterata l’energia ricevuta per unità di superficie e per unità di tempo. Gli ammassi di galassie possono quindi essere usati come efficienti strumenti che la natura ci mette a disposizione per esplorare l’Universo lontano».

Il vantaggio di sfruttare l’amplificazione degli ammassi deriva anche dal fatto che le galassie intrinsecamente deboli sono molto più numerose di quelle più brillanti, e quindi le galassie amplificate sono rappresentative della popolazione più numerosa. Essendo “ingrandite” per effetto del lensing, è anche possibile studiarne la morfologia. Questo oggi non sarebbe possibile senza l’aiuto degli ammassi di galassie, anche con i più potenti telescopi operativi.

Ma la scoperta di questo oggetto celeste così remoto, riportata in un articolo pubblicato nell’ultimo numero della rivista Nature, è di grande utilità anche per ottenere nuove informazioni su una fase nell’evoluzione dell’Universo tanto importante quanto ancora poco conosciuta, che prende il nome di Età Oscura (Cosmic Dark Age). Una fase in cui l’Universo era avvolto da una nebbia di idrogeno neutro, in grado di assorbire la radiazione luminosa.

L’Età Oscura si concluse quando si formarono le prime stelle e la loro intensa radiazione ultravioletta rese lentamente trasparente la nebbia, tra 150 e 800 milioni di anni dopo il Big Bang, permettendo così alla luce delle stelle di propagarsi nel cosmo e arrivare, dopo un lunghissimo viaggio, fino a noi.

«Quella presentata nel nostro lavoro è la più convincente osservazione di una galassia a distanze così elevate (circa 13,2 miliardi di anni luce) fatta fino a oggi – ha commentato Mario Nonino -La scoperta di una galassia, che sulla base delle nostre osservazioni è stata scorta quando l’Universo è verso la fine dalla cosiddetta Cosmic Dark Age, mostra come l’approccio di sfruttare l’amplificazione degli ammassi sia estremamente efficiente per osservare l’Universo primordiale. Questo metodo potrà essere ulteriormente sfruttato per ottenere osservazioni più dettagliate sia con telescopi attuali, come Alma, che con quelli di prossima generazione come l’europeo E-Elt (European Extremely Large Telescope) e il Jwst (James Webb Space Telescope), il successore di Hubble».

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