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SCENARI DOPO L’ANNUNCIO DI TRICHET (BCE)

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Il contenuto di questo articolo esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

(WSI) – La Banca centrale europea aumenterà i
tassi di interesse. In misura limitata e,
secondo il presidente Trichet, l’aumento
non sarà il primo di una serie. Anche se
non è chiara la necessità di questa prima
correzione, alcuni economisti pensano che
si stia aprendo una stagione di rialzi.

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Francesco Giavazzi (Corriere delle Sera, 23 novembre)
preconizza che, contrariamente alle
promesse, gli aumenti continueranno
per piegare la dinamica salariale e il risultato
sarà un “rapido rafforzamento dell’euro
sul dollaro”. La finalità di questa previsione
è quella di porre due domande ai futuri
governanti italiani. Come fronteggeranno
i maggiori interessi che inevitabilmente
dovrebbero essere pagati sul debito
pubblico? Quali “prospettive” offriranno
alle imprese non in grado di stare sul mercato
con un euro molto forte rispetto al dollaro?
Dietro queste previsioni, offerte come
certezze, vi è l’idea che sia inevitabile prima
o poi una caduta forte del dollaro a causa
dell’enorme squilibrio della bilancia
commerciale americana, anche se non è
chiaro quando questo dovrebbe avvenire.
In realtà lo squilibro di fondo della bilancia
commerciale americana dipende dal
fatto che la propensione al risparmio americana
è estremamente bassa ed è addirittura
diventata negativa nel corso di quest’anno.

E’ quindi l’alto livello dei consumi,
che è la locomotiva della crescita americana,
a creare il saldo negativo tra esportazioni
e importazioni. Non sarà il mutamento
del tasso di cambio a riequilibrare questo
squilibrio ma un eventuale mutamento
della politica interna. D’altra parte a fronte
del deficit del commercio estero americano
vi è il forte surplus commerciale delle
economie asiatiche, e in primo luogo della
Cina. Ma anche qui vi è una spiegazione
chiara. Se i consumi americani superano
l’offerta interna, in Cina i consumi rappresentano
circa il 40-45 per cento del prodotto.

Il resto della produzione interna è rappresentato
da investimenti ed esportazioni:
un paradosso per un paese che nel complesso
rimane un paese povero in termini
di redditi pro-capite. L’eliminazione di questi
squilibri nei conti esteri di questi paesi
implicherebbe un riaggiustamento dei reciproci
modelli di sviluppo. La Cina avrebbe
tutto da guadagnare da una forte rivalutazione
della sua valuta perché le esportazioni
rimarrebbero sostanzialmente competitive
sul prezzo, ma i guadagni in termini
di valuta estera sarebbero maggiori.

Questo consentirebbe una politica salariale
più permissiva, quindi un aumento dei
consumi interni, e favorirebbe la formazione
di quei sistemi di sicurezza sociale ormai
necessari al suo sviluppo e all’aumento
della produttività. In più diverrebbero
meno care le importazioni di prodotti intermedi
e materie prime di cui la Cina è divenuto
uno degli acquirenti più importanti.

D’altra parte, proprio le importazioni di
manufatti a bassissimo costo hanno permesso
agli Stati Uniti, grazie anche alla rivoluzione
nella distribuzione commerciale,
di mantenere basso il tasso d’inflazione e di
espandere l’economia dei servizi, scaricando
sulla Cina il costo aggiuntivo dell’inquinamento
e delle altre esternalità negative
connesse alla produzione manifatturiera.
Il risultato di questo legame perverso tra
le due economie è che la Cina accumula
surplus commerciali con i quali finanzia i
consumi e gli investimenti americani e
mantiene alto il valore del dollaro. Accanto
alle ragioni per cui agli Stati Uniti converrebbe
ancora un dollaro forte e alla Cina,
al contrario, un dollaro debole, ve ne
sono altre legate al movimento dei capitali
che spingono in direzione opposta. Gli
Stati Uniti, che da anni sono dei debitori
netti sull’estero, otterrebbero da una caduta
del valore del dollaro una riduzione
dei loro debiti (e una rivalutazione dei crediti).

La Cina e altri paesi creditori netti
hanno un interesse opposto. La Cina non
ha interesse a vedere svalutate le ingenti
riserve in dollari accumulate fino a oggi e
quindi ha interesse a mantenere alto il valore
del dollaro. Si tratta tuttavia di equilibri
instabili e si possono avere mutamenti
repentini nella direzione dei flussi di capitale,
ma non saranno i tenui rumori che
vengono dalla Bce a determinare il cambiamento.

Gli stessi motivi che valgono per
gli Stati Uniti spiegano perché anche all’Europa,
e all’Italia, non converrebbe una
rivalutazione dello yuan e un euro troppo
debole, anche se ciò viene richiesto da alcuni
settori industriali arretrati. Il problema
dell’Europa rimane la bassa crescita. I
tassi di interesse bassi hanno determinato
in Italia una bolla immobiliare, ma a differenza
degli Stati Uniti questa non si è riflessa
in un aumento di consumi. Non sarà
un piccolo aumento dei tassi a determinare
un effetto negativo rilevante sulla ripresa.

D’altra parte non sarà neppure la timida
politica monetaria della Bce, timida
perché condizionata dalla debolezza strutturale
delle altre istituzioni europee e delle
economie dei principali paesi dell’area,
a determinare il valore dell’euro, le cui
fluttuazioni rifletteranno scelte esterne.
Ma le domande di Giavazzi rimangono buone.

In risposta alla prima, diremmo che in
ogni caso è necessario mettere in conto un
taglio della spesa pubblica di circa un punto
percentuale di pil (l’allungamento dell’età
pensionabile sarebbe un modo anche
se non il solo). Alla seconda domanda, risponderemmo
che l’unica prospettiva che
un governo dovrebbe offrire alle imprese
non in grado di reggere a un euro forte è
semplicemente quella di fallire, rendendola
il più possibile indolore attraverso l’adozione
di ammortizzatori sociali transitori
per i lavoratori e la creazione di un ambiente
favorevole alla nascita di nuove imprese.

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