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(WSI) – Non hanno “ingolfato” solo i bilanci di molte piccole aziende italiane. I
derivati sono iper-utilizzati anche (e soprattutto) dai grandi gruppi
industriali quotati a Piazza Affari: le 22 maggiori società del listino
milanese hanno infatti in bilancio vari strumenti derivati (su cambi, tassi e
quant’altro) per un valore nominale complessivo di 85 miliardi di euro. Questa
cifra emerge per la prima volta in Italia grazie a uno studio realizzato da
Financial Innovations in collaborazione con l’Aiaf. E, sebbene sia una cifra
limitata a sole 22 blue chip quotate in Borsa, non può lasciare indifferenti:
85 miliardi di valore nominale sono molti per sole 22 aziende che insieme
capitalizzano in Borsa 242 miliardi e che vantano un attivo totale di 334
miliardi. E, soprattutto, sono molti se si considera che i derivati in mano a 15
di queste 22 società mostrano un fair value negativo. Tradotto: 15
gruppi sui 22 analizzati registrano una perdita potenziale su questi strumenti.
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La ricerca. I derivati hanno un’importante funzione: quella
di “coprire” i bilanci delle aziende dai rischi valutari, di tassi e così via.
Se un’impresa è molto esposta negli Stati Uniti, per esempio, utilizza i
derivati per “annullare” il rischio che il dollaro perda quota contro l’euro.
Che le aziende italiane utilizzassero questi strumenti era noto e ovvio. Non
bisogna dunque demonizzarlo.
Quello che fino a oggi non si sapeva, però, è quanto le grandi imprese
quotate in Borsa fossero esposte sui derivati. Solo ora, con l’introduzione dei
principi contabili Ias, queste informazioni sono disponibili nei bilanci. È
così che Financial Innovations, in collaborazione con l’Aiaf, ha iniziato ad
analizzare le principali società di Piazza Affari prendendo come punto di
partenza le semestrali o le ultime trimestrali. Così ha realizzato una ricerca
che sarà presentata domani a Milano ma che «Il Sole-24 Ore» è in grado di
anticipare. In realtà una panoramica completa sarà possibile solo quando
saranno pronti i bilanci 2005, ma già ora è stata possibile una prima analisi
approssimativa. Ma molto significativa.
Derivati a tutto gas. Il primo dato che emerge evidente è
quello numerico: le grandi società italiane utilizzano i derivati in gran
quantità per coprirsi dai rischi. Derivati di tutti i tipi: su tassi, cambi,
materie prime, merci e così via. Per tre società su 22, il valore di questi
strumenti rappresenta addirittura più del 50% del totale dell’attivo
patrimoniale. Questo rappresenta un rischio? «Il derivato, in sé, non è né
un bene né un male, ma un’opportunità – spiega Gianpaolo Trasi, presidente
Aiaf -. Il rischio di un uso non appropriato, però, c’è sempre». Le 22 blue
chip affermano tutte di utilizzare questi strumenti per coprirsi dai rischi e
non per speculare. Solo tre società (Luxottica, Telecom Italia Media e Sias)
non ne hanno in bilancio: Luxottica ha dichiarato al «Sole-24 Ore» di usare
altri modi per coprirsi dai rischi.
Se l’utilizzo dichiarato è sano, non si può dire che questi strumenti stiano
per ora dando soddisfazioni alle aziende. Ben 15 gruppi hanno infatti una
perdita potenziale (cioè un fair value negativo). In tre casi
(Autostrade, Beni Stabili e Seat) il fair value è negativo per un
ammontare addirittura superiore all’utile netto, come si vede in tabella. Stanno
invece realizzando potenziali guadagni soprattutto Aem, Edison ed Enel.
Questi dati pongono un quesito: in futuro potrebbero esserci problemi per
alcune di queste società? «In teoria no – spiega Emanuele Facile,
amministratore delegato di Financial Innovations -. Se il derivato viene
utilizzato per coprire un rischio, la perdita accusata su questo strumento viene
bilanciata da un utile realizzato sull’oggetto coperto». Il punto, insomma, è
sempre lo stesso: questi strumenti devono essere maneggiati correttamente. E,
quando sono in mano a grandi gruppi con elevata esperienza finanziaria, è
facile immaginare che sia così.
L’indagine parlamentare. Il problema è quando i derivati
vengono venduti dalle banche alle piccole aziende, non in grado di capirli. Per
questo un paio di anni fa, sull’onda di questo “allarme” Pmi, la Commissione
Finanze della Camera avviò un’indagine conoscitiva sul fenomeno-derivati voluta
dall’allora presidente Giorgio La Malfa. Da allora la Commissione (che nel
frattempo ha cambiato presidente) ha raccolto molto materiale. Ma, alla fine,
l’indagine si è arenata. Da quando La Malfa ha lasciato la presidenza della
Commissione – spiegano fonti parlamentari – l’interesse sulla questione è
calato: alla fine non è stato neppure redatto un documento conclusivo
dell’indagine. Ora la legislatura volge al termine. E, sperando che non ci siano
in futuro altri “allarmi”, sul tema cala il sipario.
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