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Riforma Lavoro: un tuffo nel passato

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New York – In Parlamento e nelle piazze già si preannuncia battaglia. La scelta di un disegno di legge (e non, come in un primo tempo ipotizzato, di un decreto d’urgenza) apre indubbiamente una fase turbolenta che, nel serrato confronto tra esecutivo, partiti politici e parti sociali, potrebbe dare luogo anche a un imprevedibile cortocircuito. Fatto sta che la riforma del mercato del lavoro pare essere ormai delineata.

Il documento reso noto dal Ministro Fornero segna un confine di profonda discontinuità con le politiche del lavoro dell’ultimo decennio. Sussidiarietà, differenziazione e prossimità sono state le parole chiave della riforma Biagi. L’impianto di riforma reso noto alle parti sociali e alla pubblica opinione può invece essere letto nell’ottica del centralismo regolatorio di matrice statuale, che vede con diffidenza non solo la concertazione e i corpi intermedi, ma anche i comportamenti dei privati cittadini, lavoratori e imprese, la cui condotta viene fortemente limitata in termini dirigisti e sanzionatori. In antitesi con le politiche del passato è anche la ricentralizzazione delle politiche per il lavoro accennata nel documento del Governo e già fortemente criticata dalle Regioni che hanno le principali competenze in materia.

Certamente il nuovo esecutivo pare molto vicino a modificare la norma simbolo della conservazione sulle tematiche del lavoro, e cioè l’articolo 18. Con una soluzione tecnica discussa e discutibile che, non a caso, già lascia presagire spazi per un maggiore contenzioso. Vero è che, apparentemente, si limita lo spazio di azione del giudice almeno nei licenziamenti economici.

La nuova versione del comma 1 dell’articolo 18, laddove si prevede il diritto alla reintegrazione,consegna tuttavia un ampio potere al giudice di valutare la qualificazione datoriale del licenziamento estesa dal licenziamento discriminatorio al licenziamento per motivo illecito ex articolo 1345 del Codice Civile. Previsione questa che permette ai nostri giudici di sindacare la qualificazione del licenziamento fatta dal datore di lavoro rendendo incerte le scelte aziendali.

Sta di fatto che il prezzo di questa indubbia innovazione, nel segnare uno scarto di non poco conto rispetto a una stagione di veti ed eccesso di concertazione, scarica tuttavia il peso dello “scambio” proposto dal Governo sulla flessibilità in entrata, che risulta ora pesantemente ridimensionata rispetto a come era stata regolata con la Legge Biagi.

Non si realizza in effetti alcuno sforzo per discernere la flessibilità buona da quella cattiva e dunque il passo in avanti sui licenziamenti viene a segnare un ritorno al passato sulle flessibilità di un mercato del lavoro disegnato a immagine e somiglianza della vecchia impresa fordista.

La vera criticità della proposta di riforma sta, in effetti, nel modello economico ed organizzativo preso a riferimento. Se nel 2003 si era provato a superare un modello regolatorio standardizzato di tipo industrialista, proprio della vecchia economia, si accredita ora l’equazione flessibilità =
precarietà che riconduce le ragioni della diffusione di tipologie contrattuali atipiche non ai profondi cambiamenti intervenuti nel mondo del lavoro, quanto alla rigidità in uscita che da sempre contraddistingue il nostro diritto del lavoro.

Riproporre, per i mercati del lavoro del nuovo millennio, il modello assorbente del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato significa allora negare la svolta del passaggio di secolo e fornire una risposta vecchia a problemi e situazioni del tutto nuove. E’ sufficiente rileggere il concetto di stagionalità per capire quanto il mercato del lavoro sia cambiato e come non sia possibile procedere con una risposta unificante. Sicuramente l’esito parziale che viene ora consegnato al Parlamento è molto meglio del progetto di contratto unico, inizialmente prospettato del Governo. E convincente è la scelta di fare dell’apprendistato il contratto prevalente per l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro.

L’impianto complessivo appare tuttavia alquanto rigido e preoccupa quanti sono consapevoli che il vero problema del mercato del lavoro italiano non sono i contratti temporanei, bensì il lavoro nero e la mancanza di percorsi di occupabilità attraverso una maggiore e migliore integrazione tra la scuola e il lavoro.

E’ davvero il regime di protezione dell’impiego italiano a spiegare, da solo, i dati del mercato del lavoro e, addirittura, il deficit di competitività del nostro Paese? A febbraio era sfuggita ai tecnici del Governo una ottimistica previsione, in termini di calo dello spread a seguito della riforma del mercato del lavoro, che è stata già commentata in queste pagine (ci si riferisce all’articolo di Fazio e Massagli ospitato anche in questo Bollettino). I dati confermano ora quell’editoriale: dal giorno di presentazione della nuova riforma del mercato del lavoro ad oggi l’ormai celebre spread tra il rendimento dei titoli di stato italiani e quelli tedeschi non solo non è diminuito, ma è peggiorato.

Un altro segnale del fatto che la ragione di tutti i ritardi italiani non è la protezione dell’impiego, quanto la sempre minore propensione ad assumere che caratterizza le nostre imprese per motivi che ha bene indicato il nuovo presidente di Confindustria: eccesso di burocrazia, elevato costo del lavoro, mancanza di infrastrutture, prezzo dell’energia. Per questo, facendo qualche calcolo, la somma totale dei nuovi posti di lavoro creati da questa riforma pare essere invariata, se non addirittura negativa, almeno nel breve periodo.