Società

REFCO, UNA LEZIONE ANCHE
PER PIAZZA AFFARI

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(WSI) – Da star di Wall Street alla bancarotta in due mesi: la vicenda di Refco non ci tocca da vicino, ma è illuminante per capire perché Piazza Affari resta un mercato asfittico, dove si calpestano i diritti degli investitori. Fondata nel 1969 per intermediare futures a Chicago, Refco rimane controllata dalla famiglia dei fondatori fino al 1998, quando al vertice arriva Phillip Bennet, che la guida fino alla quotazione a Wall Street, lo scorso 11 agosto.

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Primo giorno di scambi: + 25%. I collocatori sono nomi prestigiosi: Goldman Sachs, Credit Suisse e Bank of America. Bennet, col 34%, mantiene il controllo, assieme a un fondo di private equity (38%).

Il titolo continua a salire. Venerdì 7 ottobre, Refco vale 3,7 miliardi di dollari. Il lunedì seguente ne vale 2 di meno: un controllo interno rivela un prestito a un fondo hedge, girato a una società di Bennet, che lui non aveva dichiarato. Il consiglio di amministrazione lo rimuove. Il prestito viene rimborsato (con gli interessi), ma importa poco: Bennet, ha nascosto un´operazione con parti correlate; ha mentito al mercato, tradendo il rapporto fiduciario che lega azionisti e amministratori (anche se, come Bennet, sono azionisti di controllo). Venuta meno la fiducia, i clienti Refco ritirano i soldi e il titolo crolla. Bennet è arrestato per false comunicazioni sociali. Gli scambi in borsa vengono bloccati e si mettono all´asta le attività: un fondo di private equity rileva subito l´attività sui futures; e si chiede la protezione del giudice fallimentare per permettere una cessione ordinata delle altre attività. Partono le azioni di risarcimento contro i revisori, le banche collocatrici nel recente Ipo e, pare, lo studio legale che ha stilato il contratto di prestito incriminato. Lunedì 17: Refco non esiste più. Tutto per una bugia.

Questa vicenda ci insegna che la severità delle pene, la rigida applicazione delle norme e le condanne esemplari del dopo Enron non eliminano i comportamenti scorretti. La legge non basta. Gli investitori devono essere determinati a far valere i propri diritti, e avere risorse e strumenti per farlo. È stato il consiglio di amministrazione, non la SEC o un giudice, a denunciare e rimuovere Bennet: nonostante fosse l´azionista di controllo; e benché fosse contro l´interesse dei consiglieri che, come azionisti, hanno perso tre quarti del loro investimento. Se non l´avessero fatto, sarebbero diventati loro passibili di azione giudiziaria, cause di risarcimento e danni di reputazione enormi. Proprio come in Italia. Ve lo immaginate da noi un amministratore-azionista di controllo rimosso dal consiglio per una questione di trasparenza?

Trasparenza e fiducia sono beni comuni fondamentali da tutelare. Senza la conoscenza di patti parasociali, clausole negoziali, accordi di voto, interessi collegati, chi investe in Borsa gioca con le carte truccate. Pensate a chi, in questi mesi, ha comprato Antonveneta, Bnl, Bpi, Fiat, Rcs, o Gemina. Ma trasparenza e fiducia, da noi, non hanno quasi mai rilievo penale; quindi, non contano. C´è un´azione di concerto? Si fa un´Opa riparatrice, e finisce lì. Il prospetto non riporta una clausola contrattuale, un accordo parasociale o è lacunoso? Se Consob se ne accorge, lo si emenda.

Non si dichiara un´operazione con parti correlate? Basta integrare l´informativa; sempre che Consob se ne accorga. Nonostante i casi clamorosi di Bipop e Popolare Italiana, dove le operazioni con parti correlate erano la norma, non si impone alle banche di rendere note le singole operazioni in essere con azionisti rilevanti. Le sanzioni pecunarie inflitte da Consob sono spesso irrisorie. E poi si ricorre al Tar. Le azioni di responsabilità sono inesistenti; quelle di risarcimento costose e difficili, perché necessariamente individuali.

Per esempio, chi paga per il prospetto farcito di bugie con cui Bpi ha offerto a 8 euro nuove azioni che, per ora, ne valgono 6? Probabilmente nessuno. Se fossimo in America, anche le banche che hanno stipulato le operazioni di compravendita fittizie con Bpi, i consulenti che hanno avallato i piani di Fiorani presso gli investitori, e i legali che hanno stipulato i contratti necessari alla scalata occulta ad Antonveneta probabilmente dovrebbero rispondere di eventuali danni. Senza il loro appoggio consapevole (e ben remunerato) l´operazione non sarebbe stata possibile.

Quanto alla reputazione, sembra sia un inutile orpello. Molti consiglieri di Bpi rimangono al loro posto, nonostante abbiano avallato per anni le scorribande di Fiorani. La condanna per insider trading non ha nuociuto a Gnutti negli affari; nè quella per l´azione di concerto occulta nella scalata a Fondiaria ha danneggiato l´immagine di Ligresti. E intanto, si allunga l´impressionante scia (specie in rapporto al numero di società quotate) dei dissesti poco trasparenti: Bpi, Cirio, Bipop, Parmalat, Fin.Part, Finmatica, Giacomelli, Impregilo…

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