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Provincia Catania rischia il crack. Per una truffa del 1972

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Roma – A dare la mazzata finale non sarà la legge che dovrebbe ridurre il numero delle Province. Anche perché è difficile dire se e quando accadrà. Piuttosto, la Provincia di Catania rischia di essere stroncata da un fantasma che arriva dal passato con un conto astronomico da pagare, in grado di far saltare il banco: 23 milioni 258.682 euro e 39 centesimi.

I fatti, per la serie «quando la realtà supera la fantasia», risalgono al 1972. Il 16 ottobre di quell’anno, una settimana esatta dopo che dalle catene di montaggio della Fiat era uscita l’ultima Cinquecento, l’allora assessore «all’economato e al patrimonio» firmava un accordo con una società finanziaria chiamata Istituto finanziario italiano.

L’intesa era questa: l’Ifi avrebbe concesso piccoli prestiti ai dipendenti della Provincia, da rimborsare con le trattenute sulle buste paga che l’amministrazione provinciale avrebbe dovuto rimborsare alla finanziaria. Una tipica cessione del quinto dello stipendio, per capirci.

Ma nessuno poteva immaginare che cosa sarebbe accaduto. Perché nemmeno due anni dopo, nel maggio del 1974, saltò fuori che dei 1.318 prestiti concessi dall’Ifi, soltanto 187 erano regolari. Gli altri 1.131 riguardavano persone inesistenti o anche dipendenti dell’ente in carne e ossa, ma che non avevano mai presentato la domanda.

Della clamorosa truffa vennero riconosciuti responsabili due dipendenti della Provincia, uno che lavorava all’ufficio economato e l’altro addetto alla corrispondenza. Come avessero fatto da soli a congegnare e portare a termine tale diabolica macchinazione, appare ancora oggi incredibile. Anche perché i moduli di richiesta dei prestiti dovevano essere sottoscritti dall’assessore, al quale spettava il compito di certificare l’esattezza delle dichiarazioni. Ma tant’è.

Alla fine i due vennero condannati per truffa aggravata. In un paio d’anni si era volatilizzata una somma per l’epoca astronomica: un miliardo 828 milioni 50 mila lire. Proprio la cifra che nel 1984, ben dieci anni dopo la scoperta del raggiro, l’Ifi chiese come risarcimento. Sette anni più tardi, nel 1991, arrivò la prima sentenza: il tribunale di Catania condannava i due dipendenti a pagare, in solido con la Provincia. Di fatto, la decisione dei giudici colpiva in pieno l’ente, considerato responsabile contrattualmente. Inevitabile l’appello, che si concluse ben cinque anni dopo, nel 1996, con ribaltamento della sentenza di primo grado. La Provincia era salva. Ma in Cassazione, nel 2000, un’altra sorpresa: la suprema corte accolse il ricorso del curatore dell’Ifi, nel frattempo fallito, rinviando tutto a un nuovo giudizio d’appello. Dal quale, a distanza di ben otto anni, la Provincia uscì condannata. Inutile l’ennesimo ricorso in Cassazione, sfociato nell’estate del 2011 nella conferma di quella sentenza. Trascorsi quarant’anni, con le rivalutazioni e gli interessi legali la somma iniziale si è moltiplicata per 25 volte. E ora siamo alla resa dei conti.

Tutti i tentativi di conciliazione sono falliti. Anche la proposta avanzata dalla Provincia, nel tentativo di contenere le proporzioni del disastro pagando 12 milioni e mezzo, è caduta nel vuoto. I curatori fallimentari dell’Ifi vogliono tutto. Così a marzo hanno pignorato i conti dell’ente. E il 2 ottobre la sezione distaccata di Mascalucia del tribunale di Catania, a 28 (ventotto!) anni dall’inizio della causa, ha reso esecutiva la sentenza. Non serve nemmeno che la Provincia paghi materialmente, visto che il giudice dell’esecuzione, Giorgio Marino, ha autorizzato la sua banca tesoriera «a prelevare » la somma «da quanto dovuto al debitore escutato». Traduzione: i soldi possono essere trattenuti direttamente dal conto dove vengono depositati i trasferimenti provinciali.

Non si è commosso, il tribunale, nemmeno di fronte al grido di dolore del presidente della Provincia Giuseppe Castiglione, esponente del Pdl. Opponendosi al pignoramento, il suo avvocato aveva fatto presente che quei 23 milioni e rotti di euro avrebbero reso impossibile il rispetto del patto di stabilità, con le conseguenze terribili del caso. E Marino, niente. Anzi: nella decisione del 2 ottobre gli ha risposto che il patto di stabilità «opera con riferimento al contenimento delle spese, ma non può certo operare quale limite per pagamenti discendenti da provvedimenti giurisdizionali, per di più passati in giudicato e per di più in danno di legittime pretese creditorie ». Amen.

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