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POTERE AL CAVEAU

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(WSI) – E così, anche per l’affare Telecom, le banche di nuovo protagoniste. In un sistema capitalistico, dove la gran parte delle imprese soffre soprattutto di scarsità di capitali, è quasi scontato che le situazioni critiche finiscano per chiamare in causa chi di soldi, viceversa, dispone: gli istituti di credito. Per giunta, pare proprio che l’intervento bancario goda pure dei favori del potere politico, preoccupato che l’azienda possa finire in mani non italiane dopo che gli altri operatori telefonici nazionali sono passati sotto controllo estero. Tutto congiura, insomma, per una banchizzazione dell’ex monopolio pubblico delle telecomunicazioni.

Qualcuno potrà magari sostenere che non è il caso di drammatizzare questo ulteriore passo verso l’affermarsi di una piena bancocrazia nel sistema economico domestico.

Anche la Fiat, si dirà, è stata di recente salvata grazie al sostegno del mondo creditizio, ma poi, seppure attraverso passaggi assai poco lineari, l’azionista storico ha ripreso il controllo dell’impresa, che oggi è tornata a riconquistare ricche fette di mercato e a macinare profitti. Già, peccato che nel caso Telecom si stenta a identificare un qualunque azionista che possa essere considerato di riferimento: oggi non lo è neppure l’uscente Tronchetti, ammesso che lo sia mai stato.

Quindi, la presenza delle banche nella società telefonica non si annuncia passeggera, anche se queste dovessero ricorrere al trucco di arruolare qualche altro sedicente capitano coraggioso che, robustamente finanziato dalle medesime banche, si provi a far finta di fare l’imprenditore in proprio. La trovata non allenterebbe di un centesimo il predominio del potere creditizio sull’azienda: anzi, riporterebbe quest’ultima sotto la minaccia di continue tosature di denaro affinché l’eventuale ‘Quisling’ delle banche possa reggere gli impegni verso i suoi finanziatori.

Quando la storia si ripete, si diceva una volta, diventa farsa. E, tuttavia, va preso atto che eminenti banchieri ed autorevoli esponenti politici paiono oggi felici di recitare in questa opera buffa. La preoccupazione per i rischi impliciti in questo ulteriore scivolamento dell’economia nazionale verso la bancocrazia non tocca i primi – e forse si può anche capire – ma nemmeno i secondi: cosa che suona assai meno comprensibile. Serie ragioni d’allarme, viceversa, non mancherebbero.

Intanto va ricordato che il mestiere del banchiere non si coniuga spesso con quello dell’imprenditore: la parabola del più celebre di tutti – Enrico Cuccia – insegna con il tracollo dell’industria chimica a quali disastri si può arrivare. Poi, nel caso specifico, va segnalato che l’intrecciata presenza di banche (Intesa-Sanpaolo e Capitalia) a vari livelli della filiera Pirelli-Telecom getta più di un’ombra obliqua sulle soluzioni che saranno escogitate a causa dei non pochi conflitti d’interessi latenti.

Infine, va registrato che il nostro sistema bancario, tranne rare eccezioni, è strutturalmente debole ed esposto: basti dire che il 43 per cento dei suoi ricavi deriva dalla banale gestione dei conti correnti. Far difendere il tricolore da simili truppe non sembra il massimo della sagacia strategica.

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