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POLITICA: E ORA TOCCA ALLA LEGA PIGLIATUTTO

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(WSI) – Le divergenze politiche ormai esplicite che separano Gianfranco Fini (ma per motivi diversi anche Giulio Tremonti) da Silvio Berlusconi, complicano la vita del Popolo della Libertà, un partito troppo vasto e disomogeneo perché gli basti la leadership di un uomo solo, per quanto potente. Il risultato di questa tendenza centrifuga, resa più acuta dall’urgenza d’impunità giudiziaria rivendicata dal capo del governo, è che quest’ultimo finisce ineluttabilmente nel riconoscere la Lega Nord come unico partito a lui davvero fedele e Umberto Bossi come partner ideale del suo progetto.

Ho l’impressione che, in assenza di un’opposizione di centrosinistra davvero competitiva, le varie componenti del Pdl e la Lega proseguiranno senza timori eccessivi di fare brutta figura la contesa degli organigrammi: chi conquista più candidati presidenti nelle regioni che contano, con quali contropartite nel rimpasto del futuro governo romano e con quante compensazioni nel sottogoverno economico (fiere, aziende energetiche, fondazioni bancarie).

Ma ogni giorno che passa appare più evidente che nella trattativa la Lega si avvantaggia fino a porre una vera e propria ipoteca sul futuro dell’elettorato conservatore nel settentrione d’Italia. Oggi non esiste più una differenza significativa di valori culturali e di interessi materiali che possa impedire il travaso diretto di voti fra il Pdl e la Lega. Non solo un berlusconiano convinto può votare senza difficoltà un governatore leghista in Veneto e in Piemonte; ma se lo scandalo delle bonifiche ambientali in cui è coinvolto l’entourage di Roberto Formigoni si rivelasse troppo imbarazzante, anche in Lombardia potrebbe maturare una candidatura leghista alla presidenza senza traumi eccessivi.

Bossi sente il vento in poppa. Paragona il suo partito a Sparta e compatisce Berlusconi per i grattacapi che gli derivano da un Pdl dilaniato da egoismi e clientele locali. Quando garantisce al capo del governo di restargli al fianco anche sul terreno scivoloso della guerra ai magistrati, Bossi lo fa nella consapevolezza di avere costruito un’organizzazione territoriale in grado di raccogliere, al momento debito, l’eredità del berlusconismo.

Sono mesi che sento imprenditori e banchieri del Nord, culturalmente distanti dalla Lega, manifestare ammirazione per la puntualità e la competenza dei suoi amministratori. Giancarlo Giorgetti, un commercialista di Cazzano Brabbia (Varese), figlio di pescatore, divenuto presidente della Commissione Bilancio della Camera, ma soprattutto uomo di fiducia della Lega nei rapporti con l’establishment, disdegna le apparizioni pubbliche ma è ricercatissimo da chi deve trattare affari delicati. Dicono che a differenza dei notabili Pdl non chieda mai niente per sé, e si presenti agli incontri ben documentato sui dossier. Ma apprezzamenti simili vengono rivolti a presidenti di provincia e sindaci leghisti, in contrapposizione alla rapacità e all’indisciplina degli altri.

Di certo la Lega non è un partito con pretese di cultura liberale. Nessuno al suo interno si lamenterebbe, come fa Gianfranco Fini, di un “clima da caserma” che al contrario viene apprezzato talmente da indossare camicie, cravatte e fazzoletti verdi a mo’ di divisa.

Molti neofiti ammiratori della Lega le preconizzano un futuro da “nuova Democrazia Cristiana” solo perché riconoscono in lei l’omogeneità culturale di partito che manca ai berlusconiani. Temo sottovalutino che l’indubbia forza di tale partito affonda le sue radici in una tradizione popolare, soprattutto lombarda e veneta, ma anche piemontese, di natura fortemente conservatrice, se non reazionaria. Costretto dalle sue difficoltà politiche e personali a ingigantire lo spazio di una Lega pigliatutto, Berlusconi sta favorendo la rinascita di una destra padana che sa di antico e che ha ben poco a che fare con il Partito Popolare europeo.

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