Società

PIU’ MERCATO
A BERLINO

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(WSI) – Sul futuro dell’economia europea e dell’euro avranno più impatto le elezioni in tre grandi Paesi – domani in Germania, nella primavera prossima in Italia, un anno dopo in Francia – di quanto potranno averne tutte le decisioni della Banca Centrale Europea, della Commissione e dei sette vertici dei 25 capi di governo che avranno luogo nel frattempo. Le politiche che determinano la crescita, la competitività e l’occupazione sono in larga misura di competenza dei singoli Paesi e questi tre Paesi pesano per il 52 per cento sul prodotto interno lordo dell’Unione Europea e per il 69 per cento su quello della zona euro.

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Quando si dice che l’economia europea «va male» e che l’euro o la politica della Banca Centrale europea «ostacolano la crescita» si dice qualcosa che cesserebbe istantaneamente di essere vera, se si guardasse al resto dell’Unione Europea o della zona euro. Sono soprattutto le tre grandi economie continentali (e fra queste in misura accentuata l’Italia) ad avere prestazioni insoddisfacenti.

Il peso di questi tre Paesi è molto rilevante anche nel determinare la direzione e il ritmo delle politiche comunitarie. Essi, e soprattutto la Francia e la Germania, sono stati negli ultimi anni fattori frenanti nel processo di integrazione economica e di liberalizzazione (si pensi alla liberalizzazione dell’energia, alla direttiva sulle offerte pubbliche di acquisto o alla direttiva sui servizi), mentre in passato ne erano stati i principali propulsori.

È importante che dalle tre elezioni emergano leadership – e condizioni di governabilità – capaci soprattutto di rendere più moderne e competitive le rispettive «economie sociali di mercato». Ciò richiede riforme strutturali che, rendendo più efficiente il mercato consentano anche di conseguire in modo migliore e più sostenibile gli obiettivi sociali. (Indicazioni interessanti sono state presentate la settimana scorsa al consiglio Ecofin di Manchester, su invito del ministro britannico Gordon Brown, da André Sapir: Globalization and the reform of European Social Models.

Ma perché questi progressi avvengano, a me sembra necessario uno «sblocco» di tipo culturale, in particolare in Francia e in Germania: la riappropriazione dell’economia di mercato. Mi ha colpito negli ultimi anni – anche come interlocutore di quei due governi affinché rispettassero le regole del mercato unico e della concorrenza – una certa presa di distanza dai principi dell’economia di mercato. Più riottoso e difensivo in Germania, intellettualmente più aggressivo e sublimato da ascendenze colbertiane in Francia, l’atteggiamento del potere politico, ma in parte degli stessi poteri economici, nei confronti del «mercato» ha rivelato una crescente alienazione. Sempre più spesso tedeschi e francesi, riferendosi al mercato, hanno preso ad usare due coppie di aggettivi spregiativi: «ultra liberale» e «anglo-sassone».

È anglosassone, in Europa, l’economia di mercato? Se pensano così, tedeschi e francesi danno prova di eccessiva (e, per alcuni di loro, inconsueta) modestia e stravolgono la storia. Fu la Germania a improntare al mercato la costruzione europea. Negli Anni Cinquanta Ludwig Erhard mise in pratica i principi elaborati nei decenni precedenti dalla Scuola di Friburgo e diede vita in Germania alla Soziale Marktwirtschaft , con un fondamentale pilastro fatto di mercato e di concorrenza.
Con l’appoggio della Francia, e anche dell’Italia, questa concezione ha permeato di sé il trattato di Roma del 1957, con l’integrazione dei mercati e le regole della concorrenza.

In che condizioni si trovava, in quegli anni, la patria anglosassone dell’Europa, la Gran Bretagna? La sua economia non era affatto «ultra liberale». Fino all’avvento di Margaret Thatcher venti anni dopo, quella economia era, semmai, «paleo-socialista». Quando, all’inizio degli anni Settanta, ebbe luogo il dibattito sull’ingresso della Gran Bretagna nella Comunità Europea, i fautori dell’ingresso usavano anche l’argomento: «Così ci ancoreremo all’economia di mercato di stampo tedesco e metteremo ordine nella nostra». Fu un po’ come, venti anni dopo, sarebbe avvenuto per l’Italia e gli altri Paesi che hanno desiderato ancorarsi alla disciplina del bilancio pubblico di stampo tedesco. (Ai lettori più giovani va ricordato che, allora, la finanza pubblica tedesca era un modello di disciplina).

Credo che se Germania e Francia vogliono ammodernare le loro economie, renderle più competitive e dare così slancio all’intera Europa – facilitando anche il difficilissimo cammino dell’Italia – debbano ritrovare un po’ di orgoglio. Sono loro, non gli anglosassoni, che hanno tracciato la strada.
Qualunque sia l’esito delle elezioni tedesche è auspicabile che questa riflessione dia coraggio per le riforme. Quanto alla Francia, la neo-presidente del Medef (la Confindustria francese), Laurence Parisot, nel suo primo discorso ha dichiarato: «Voglio fare amare ai francesi l’economia di mercato». Mi pare che abbia capito il problema. Speriamo che riesca nel suo intento, se possibile prima delle elezioni presidenziali della primavera 2007.

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