Mercati

Perché la semplificazione delle quotazioni non è una buona idea

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di Alessandro Sannini, presidente di Twin Advisors&Partners London ed head of Strategy di 3iP Space

In questi giorni c’è un grande dibattito aperto sull’iniziativa motu proprio di Giancarlo Giorgetti, Ministro delle Finanze, per un provvedimento legislativo per semplificare l’iter di quotazione in Borsa delle pmi italiane. Si parla di alzare l’asticella della definizione di pmi a 1 miliardo di capitalizzazione, come un meccanismo di auto collocamento; un meccanismo che permette alle società di offrire al pubblico propri strumenti finanziari risparmiando gli oneri di intermediazione. Intanto rispetto alle piazze finanziarie europee Piazza Affari è un mercato sottocapitalizzato. Con una capitalizzazione di circa 680 miliardi di euro, il valore delle società quotate a Piazza Affari è di gran lunga inferiore a quelle delle altre piazze europee. Lo scorso anno 15 società, tra cui Atlantia ed Exor, hanno detto addio al listino principale milanese. I nuovi ingressi sono stati solo sei.

La riflessione a questo punto non è riguarda come quotare in Borsa, ma quali aziende quotare in borsa. Pare che si insista sul voler popolare il mercato di qualsiasi cosa, anche con dimensioni non grandi, credendo a un utopico “Make ipo sexy again“, basato su quantità e non su qualità degli emittenti. Non è che questa idea è frutto di un pensiero comune guidato da una serie di attori che intendono la Borsa come un loro dominio e sono desiderosi unicamente di incassare le commissioni di advisory e qualche posto nei consigli d’amministrazione senza minimamente curarsi del mercato stesso e della permanenza dei listini stessi e dell’appetibilità dell’azienda stessa?

Pensare ad esempio a processi di auto collocamento significa essenzialmente pensare a private placement, dove molto probabilmente saranno gli advisor a gestire il book e non i global coordinator i bookrunner (normalmente banche d’investimento, sim e altri soggetti vigilati), visto che la tendenza è far entrare in borsa emittenti dalle dimensioni contenute e non particolarmente strutturate. Il rischio che stiamo correndo è quello di far governare la Borsa non dagli scambi, dagli investitori e da quotazioni con il loro marketing che possono attrarre denaro anche dall’estero, ma da attori locali che un po’ con una politica di cartello sdoganano un concetto scellerato che la Borsa non è un’idea di crescita con lancio lungo, ma un momento dove una tantum queste neo emittenti possono recuperare un po’ di equity, senza pensare ad una vera e propria strategia di crescita attraverso mercati di capitale.

Anche la governance che dovrebbe essere una forma di garanzia nei confronti del mercato in questo clima diventa qualcosa di fastidioso, simile all’atteggiamento di chi si vede arrivare dentro casa la domenica mattina la zia rompiscatole.

Si parla di una potenziale platea di emittenti di 160 mila pmi. Numero alquanto velleitario e sebbene sarebbe importante avere dei listini in cui ci sono molte opportunità non è neanche sano pensare alla quotazione in borsa come al traguardo per una catena di montaggio, dove non si pensa alla qualità dell’emittente ma solo alla quantità. Ci potremmo trovare ad un certo punto con molti Isin che non interessano a nessuno, che non scambiano e che finito l’effetto del primo giorno di quotazione galleggiano nei listini.

È auspicabile inoltre non pensare a “battere l’Europa”, ma fare in modo che Milano e gli emittenti italiani possano avvantaggiarsi di essere parte di una Capital Markets Union europea e possano poter in qualche caso poter avere il loro titolo quotato su mercati diversi da quello italiano come quello di Parigi oppure quello di Amsterdam, che è un campione in fatto di scambi. E questa idea di rendere facile la quotazione anche soggetti meno strutturati e con dimensioni economiche più piccole pare uscita dal manifesto economico di Ernst Friedrich SchumacherPiccolo è bello, correva l’anno 1973. Ma in Borsa il piccolo non è necessariamente è bello. 

Oltretutto può essere condivisibile che con un listino composto da molti più titoli ci siano molte più opportunità per investitori anche piccoli, ma in questo momento di mercato vale, sia per grandi e piccoli, l’idea del flight to quality, ossia di “fuga verso la qualità”. Si riferisce ad un fenomeno in cui gli investitori, in periodi di incertezza economica o di mercato, tendono a spostare i loro fondi da asset considerati rischiosi a quelli considerati sicuri e di alta qualità, come ad esempio titoli azionari di aziende stabili e consolidate o se non consolidate almeno particolarmente interessanti.

Un’altra volta in una sorta di pensiero comune si motiva questa voglia di deregulation per l’ingresso in borsa rivolgendosi alle startup e al venture capital, paragonando il nostro ecosistema economico a quello americano e al Nasdaq americano, senza valutare bene che le dimensioni degli investimenti nei primi round sono infinitesimali rispetto ad oltre oceano e che probabilmente bisognerebbe pensare ad aziende più mature e più solide magari molto tecnologiche.

Probabilmente c’è da ripassare e da rileggere “The Venture Capital Cycle” di Josh Lerner e Paul Gompers, illustri docenti di Harvard, per ricollocare il momento giusto della quotazione in borsa, quando superata una certa dimensione, magari private equity-backed, si ritiene di avere la maturità di frequentare i mercati di capitale, facendolo con trasparenza e leadership, creando un circolo virtuoso per l’emittente e per gli investitori.