Società

PERCHE’ LA LEGA STA FACENDO AMMUINA

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(WSI) – La parola “isteria” e l’aggettivo “isterico” sono stati usati per la prima volta da Ezio Mauro nel suo articolo di ieri a proposito dei recentissimi comportamenti del nostro presidente del Consiglio. Si sente braccato, inventa un suo ruolo maieutico in tutte le trattative internazionali che si rivela però del tutto infondato (a cominciare dal vertice russo-turco sul gasdotto); insulta come delinquenti due giornalisti che fanno domande scomode ma pertinenti nel corso di una conferenza stampa da lui convocata; teme l’arrivo di un settembre difficile per il governo e per lui e lo dice nel corso d’una riunione con i suoi collaboratori mentre contemporaneamente riafferma che il peggio della crisi è passato e che da settembre verrà il bello.

Insomma isteria. Isteria da insicurezza psicologica, economica, politica.

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Osservo tuttavia che il presidente del Consiglio non è il solo a soffrire di questo sintomo e a manifestarlo con i suoi comportamenti. Ne sta infatti visibilmente soffrendo il partito a lui più vicino, quello dalla cui tenuta dipende la permanenza in carica del governo e del premier. Parlo della Lega Nord e del terzetto che la guida: Umberto Bossi e i suoi colonnelli Calderoli e Maroni. I loro più recenti comportamenti non consentono dubbi su questa diagnosi: il terzetto di punta della Lega sembra in preda ad un male oscuro al quale cerca di sottrarsi inseguendo alternative che hanno il solo effetto di peggiorare la situazione e di scaricarne gli effetti negativi non tanto sulla Lega quanto sull’intera comunità nazionale.

Le due insicurezze e le isterie che ne derivano – quella del premier e quella della Lega – rischiano di raggiungere la loro massima intensità nei prossimi mesi a partire dalla ripresa di settembre, con conseguenze preoccupanti sulla tenuta democratica. Perciò è urgente e necessario approfondire questa diagnosi e ricercarne le cause.

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Sappiamo da sempre quali siano gli obiettivi politici della Lega: staccare le sorti del lombardo-veneto e possibilmente dell’intera Padania dal resto del Paese. Per un lungo periodo vagheggiarono una vera e propria secessione mantenendo semmai un innocuo legame confederativo con le altre zone del paese. Ma visto che la Padania in quanto tale era malvista come entità politico-territoriale da moltissimi dei suoi abitanti, ripiegarono sul federalismo, fiscale e istituzionale.

L’obiettivo era ed è quello di trattenere il reddito e la ricchezza nei luoghi dove si forma, concedendo blande forme di perequazione alle zone più deboli. E poiché l’alleanza politica con la Lega è sempre stato uno dei punti fermi di Berlusconi a partire dalla sua prima discesa in campo, così il federalismo fiscale e istituzionale diventò anche un obiettivo di Forza Italia ed ora del Partito della libertà, essendosi in buona parte spente le resistenze un tempo opposte da An in nome dell’unità nazionale.

Poiché un obiettivo così complesso come quello di trasformare uno Stato unitario e centralizzato in un’unione di regioni federate aveva bisogno di aggregare ampi e solidi consensi in tutto il Paese e poiché il federalismo in quanto tale quei consensi non era in grado di produrli, gli strumenti per ottenerli furono individuati nei due temi, strettamente connessi tra loro, della sicurezza e della lotta contro l’immigrazione.

Fu messa in campo tutta la potenza mediatica della quale Berlusconi dispone per montare al massimo la “paura percepita” dei reati e il loro collegamento con l’immigrazione. In particolare con quella clandestina, ma anche con quella regolarizzata che ammonta ormai a quasi 5 milioni di persone.

Questa strategia, che aveva già dato i primi risultati nella legislatura 2001-2006, fu ampiamente premiata durante la campagna elettorale del 2007 ed ha raggiunto ora il punto culmine di attuazione. La legge-quadro sul federalismo è stata votata (con l’astensione del centrosinistra) nello scorso maggio.

Pochi giorni fa è stata approvata la legge sulla sicurezza. Alla ripresa di settembre verranno sul tavolo i problemi della delega e dei decreti delegati per la graduale attuazione del federalismo fiscale, nonché la riforma costituzionale che trasformerà il Senato in Assemblea delle autonomie con tutto il ricasco che una tale trasformazione avrà sull’organizzazione del governo, delle istituzioni di controllo a cominciare dal Parlamento, dalla Corte costituzionale e dall’Ordine giudiziario. Per finire con inevitabili modifiche sul ruolo del presidente della Repubblica.

Insomma, un sommovimento istituzionale di ampie dimensioni che ha come radice il federalismo fiscale e come obiettivo della Lega quello di “isolare” la parte ricca ed efficiente del paese dal contagio con la parte “povera, brutta e cattiva” che vive “oziosa e parassitaria” nel Centro e nel Sud.

Poiché questa strategia sta andando avanti ed è stata fin qui largamente premiata per l’asse Berlusconi-Bossi, sembrerebbe incongruo parlare di isteria, soprattutto per quanto riguarda la Lega. E invece no. La strategia nordista si trova infatti proprio ora ad una stretta e in uno stallo che forse i suoi fautori non avevano previsto e che rischia di frantumargli in mano il giocattolo che volevano costruire.

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Voglio dire che, passando da una versione generica e ideologica ad una concreta, sono emerse alcune gravi difficoltà ed alcune profonde reazioni che stanno prendendo corpo e suscitando crescente inquietudine. Non si tratta soltanto della rabbiosa rivendicazione dei siciliani di Lombardo e di Micciché, che il premier è ancora in grado di tacitare con regalie personali e spostamento di risorse.

Si tratta dell’incognita del federalismo fiscale che è arrivata ormai al punto di svolta. Dopo la legge-quadro che è stata un puro elenco di intenzioni e di vaghi principi, si profila ora il passaggio dall’ideologia al merito, emergono le contraddizioni, la diversità degli interessi, la complessità dei parametri e soprattutto l’incognita del costo.

Nessuno è in grado di dire quanto costerà il federalismo fiscale, chi ne sopporterà l’onere maggiore, quali ne saranno i vantaggi per la comunità nazionale, per le zone più ricche come per quelle più povere, tenendo presente che ricchezza e povertà non sono divisibili soltanto tra il Nord e il Sud poiché aree ricche esistono anche nel Mezzogiorno (soprattutto quelle che coincidono con le organizzazioni criminali e con le clientele della zona grigia) così come sacche di povertà frastagliano anche il Nord.

Le cifre del federalismo fiscale non le conosce nessuno, neppure il ministro dell’Economia che pure dovrebbe esserne debitamente informato. Quelle cifre danno (a regime) un saldo attivo o un saldo passivo? Quanto tempo dovrà passare perché il sistema funzioni a pieno ritmo? E che cosa accadrà nel frattempo, quali scosse, quali tensioni si verificheranno e quali ceti sociali e quali territori avvertiranno quelle scosse con maggiore intensità?

Questo nodo di domande ha fatto dire a chi spinge avanti il progetto federalista che la qualità del budino si conoscerà dopo averlo mangiato. Lo stesso Tremonti ha usato l’immagine del budino.

Dal canto mio dico, parafrasando, che il federalismo fiscale è come l’araba fenice: che ci sia ciascuno lo dice, come sia nessuno lo sa. Potrà essere un salto di qualità oppure una trappola di sabbie mobili, una più solida democrazia oppure un brulicare di burocrazie, un diretto controllo dei cittadini o una delega in bianco a gruppi di potere locali. Infine un’accresciuta solidarietà oppure una secessione silenziosa e lo sfasciamento del paese.

Tutto si svolge alla cieca. Ecco perché perfino la Lega è impaurita ed ecco perché i tempi di realizzazione concreta del federalismo fiscale saranno inevitabilmente allungati.

Nel frattempo però il consenso popolare rischia di smottare e alcuni segnali già ci sono. In vista di questo pericolo il terzetto di punta della Lega ha deciso di fare “ammuina”: le ronde, le gabbie salariali, il ritiro delle missioni militari all’estero, la guerra delle bandiere regionali contro quella nazionale, sono pura e semplice “ammuina” per nascondere che l’incognita del federalismo fa paura perfino a coloro che lo hanno voluto e portato avanti fino ad un punto di non ritorno.

Domenica scorsa scrissi che questa situazione di disfacimento e di secessione silenziosa richiede il lancio di un allarme rosso che blocchi la deriva e metta in campo tutte le energie positive, latenti ma disperse, e le riporti in campo. Ripeto quel mio invito. E’ il momento che queste energie potenziali entrino in scena, si manifestino, usino gli strumenti che ci sono per costruirne altri più appropriati ed efficaci. Temo che non ci sia tempo da perdere. L’abbiamo detto tante volte in questi quindici anni ed anche prima. Purtroppo era sempre vero ma questa volta è più vero che mai.

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Post Scriptum. Il ministro Brunetta (ma sì, quel simpaticone) ci ha scritto una lettera a proposito dello sfondamento della spesa ordinaria di 35 miliardi tra il 2008 e il 2009. Avevo scritto che uno sfondamento di tali dimensioni in una fase di crisi e dissesto dei nostri conti pubblici (anche se il ministro Tremonti continua pervicacemente a negare quest’evidenza da lui stesso documentata nell’ultimo Dpef) era incomprensibile. Quei miliardi di euro equivalgono ad un aumento del 4,9 per cento della spesa ordinaria. Vogliamo sapere a che cosa sono serviti. E’ una curiosità morbosa? Tremonti dovrebbe rispondere ma ecco che in sua vece ha risposto Brunetta nella lettera da noi pubblicata.

So bene che con questo “post scriptum” espongo i lettori di “Repubblica” al rischio di un’altra lettera del Brunetta medesimo, ma le cifre da lui fornite chiedono risposta.

Dunque. Scrive il ministro della Funzione pubblica che tra il 2008 e il 2009 le spese della Pubblica amministrazione destinate al personale sono aumentate di circa quattro miliardi. Il ministro ne spiega la ragione e noi non vogliamo entrare nel merito. Spiega anche che la spesa per “Consumi intermedi” è a sua volta aumentata da un anno all’altro di 3850 milioni. Non dice il perché, debbo dedurne che si tratta di sprechi.

Altro Brunetta non dice. Il totale delle risorse da lui giustificate nel modo suddetto ammonta dunque a poco meno di otto miliardi. Lo sfondamento della spesa ordinaria è stato di 35 miliardi. La differenza per la quale attendiamo ancora notizie dal ministro dell’Economia o dal suo vice alla Funzione pubblica è quindi di 27 miliardi di euro. Volete per favore dire alla pubblica opinione come diavolo li avete spesi?

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