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“Per l’Italia l’unica via di salvezza è rinegoziare il debito”

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NEW YORK (WSI) – Messaggio urgente per Matteo Renzi: inutile inseguire la flessibilità, «è solo una parola che ogni Paese intende a modo suo, non sarà lei a salvare l’Italia, e neppure i cosiddetti investimenti produttivi».

E allora, professor Ashoka Mody?
«Allora ci vuole un approccio molto più radicale: una limitata, e ben regolata, ristrutturazione del debito dell’Italia nei confronti dei suoi creditori privati. Questo concetto ha per alcuni un suono di tragedia, magari greca, ma non è così».

Ashoka Mody, economista indiano dell’Università di Princeton, e ricercatore dell’Istituto Bruegel di Bruxelles, butta il classico sasso nello stagno, anzi nella palude: una parola come «ristrutturazione» o «rinegoziazione del debito» è quasi un tabù, a Roma come (un tempo) ad Atene. Ma il professore è convinto che Renzi debba muoversi in fretta.

Perché?
«Intanto perché è impossibile, nello schema attuale dell’Eurozona, cambiare la regola sul contenimento del deficit al 3% del Prodotto interno lordo. Anzi, le 28 diverse regole di altrettante nazioni. Se vuoi uno schema in cui ci sia della flessibilità, allora qualcuno deve allenarsi a cedere qualcosa. Ma chi deciderà?».

Torniamo dunque alla ristrutturazione del debito pubblico italiano…
«Sì. Come dicevo dev’essere limitata, calibrata. Ed è da lì che giungerà una qualche flessibilità per Renzi, dalla rinegoziazione delle obbligazioni, dal pagamento di diversi interessi, con un sostegno parallelo in liquidità della Banca centrale europea, e del Fondo monetario internazionale. L’Italia avrà così un po’ di respiro».

Sempre che si riesca a trovare la determinazione o il coraggio di parlarne.
«Lo so, quando la gente parla di debito in ristrutturazione pensa subito a un grande evento catastrofico, che distruggerà ogni cosa intorno».

Lei è molto più ottimista?
«Io penso invece a una modesta soluzione che, guadagnando qualche anno, ci dia i margini per ricominciare a investire nella crescita. Nel 2008 il debito italiano era il 104% del Pil, nel 2010 il 120%, ora il 136%. Ogni anno, è una sorta di bersaglio mobile. Ma insieme alla ristrutturazione, ci vorrà anche un’altra misura».

Quale?
«Un ridimensionamento dell’euro. Un’azione internazionale, cui partecipi l’Italia, per indebolire l’euro, che oggi è molto forte se comparato con una debole Eurozona».

Torniamo alla flessibilità, è probabile che Renzi dovrà continuare a chiederla, ma perché lei sembra diffidarne tanto?
«Perché sono discorsi che vanno avanti da tanto. Perché già nel 1998, quando ci fu un vertice di sei mesi che fu il primo passo per includere l’Italia nell’Eurozona, l’ambasciata tedesca a Roma spedì un cablogramma: l’Italia, diceva, chiede più flessibilità sulle regole di bilancio ma in realtà vuole solo liberarsi di vincoli e catene».

E questa sua idea che la flessibilità sia più o meno un coperchio buono per tutte le pentole?
«Ma sì, come la governance o la “politica comune”, parole che ancora non sappiamo bene che cosa significhino, parole create per coprire le differenze nazionali fra i Paesi nella speranza di un compromesso che portasse la chiarezza, mentre hanno creato collisioni di interessi. Posso fare una previsione?».

Certo.
«Quando Renzi tornerà dalla signora Merkel per chiedere ancora un poco di flessibilità, lei gli risponderà “ma certo, naturalmente, queste cose le abbiamo già tutte nel nostro patto di Stabilità e di crescita”. E si ricomincerà da capo. Ma il principio più importante resta quello stabilito fra Germania e Bce: le regole di bilancio devono essere approfondite piuttosto che alleggerite. E se un Paese si comporta prudentemente, non avrà problemi: un debito pubblico sotto il 60% del Pil, un deficit che non superi il 3% del Pil, e in più le riforme strutturali, dove può esserci un problema?».

Qualcuno però ha chiesto clemenza, e l’ha avuta. La Francia ha un deficit sul 4,3% del Pil, come può esigere altra comprensione?
«Lo fa proprio perché l’ha chiesta in passato, e l’ha avuta. Una volta che acconsenti, è più difficile dire di no. Ma nel caso della Francia non si tratta di un fattore economico, bensì politico».

Il contenuto di questo articolo, pubblicato dal Il Corriere della Sera – che ringraziamo – esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

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