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PANIC SELLING:
CHE FARE?

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La settimana appena trascorsa non è stata molto diversa dalle ultime: ennesimo scivolone del Nasdaq , debacle delle blue chips tecnologiche, profit warning al di qua e al di là dell’Atlantico.

Ma a ben guardare qualcosa di diverso è avvenuto: se le vendite iniziate a marzo 2000 e accentuatesi negli ultimi due mesi hanno affossato soprattutto i titoli TMT, nell’ultima settimana il sell off è stato generalizzato, senza distinzioni di comparto.

Prova ne sia il fatto che anche l’ultimo baluardo, il Dow Jones, rimasto fino ai primi di marzo tutto sommato, a pochi punti dai massimi, ha chiuso la settimana con un pesante ribasso (-3.8%), affondato dalla caduta dei principali colossi della hold economy, considerati per molto tempo un porto tranquillo nel mare tempestoso dei TMT.

E anche in Europa si è comportato allo stesso modo il mercato svizzero, che in sole cinque sedute ha perso quasi il 4%: proprio la sua natura difensiva con la prevalenza nell’indice di titoli appartenenti ai settori tradizionali come quello assicurativo, bancario, e farmaceutico, aveva risparmiato il listino di Zurigo dalla correzione avvenuta nel 2000, consentendogli di chiudere l’anno con la performance migliore fra le Borse europee.

Alla luce di questi ultimi avvenimenti viene quindi da chiedersi che cosa stia succedendo sui mercati. Stiamo veramente entrando in una fase di bear market? E se sì, sarà forse come quella degli anni ’73-’74, o c’è qualche speranza di essere più vicini alla crisi del 1987, o a quella più recente del 1998? Fermo restando che nessuno è in grado di dire ora, con certezza, quale sarà lo scenario da qui a sei mesi, una analisi dei trend storici può indurre a qualche utile riflessione.

1. Nella crisi del 1998 lo S&P500 collassò del 24% a seguito del fallimento dell’hedge fund LTCM (long term capital management) e delle diverse difficoltà che investirono i Paesi emergenti. Si trattò nella sostanza di una crisi di natura finanziaria e come tale fu risolta: con l’utilizzo di strumenti di politica monetaria e attraverso gli aiuti del FMI.

E a dimostrare ancora una volta quanto l’economia mondiale fosse globale, gli interventi furono guidati dal carisma e dalla credibilità della Federal Reserve, che con tre tagli consecutivi dei tassi d’intersesse consentì ai mercati azionari internazionali un pronto recupero e in meno di quattro mesi lo S&P500 fece segnare nuovi massimi storici.

2. Nel 1987 la crisi fu ancora più lampo: in una sola seduta il Dow Jones perse oltre il 20% e impiegò 2 anni prima di rivedere nuovi massimi. La discesa fu inaspettata e la ripresa abbastanza repentina: a quasi 15 anni da quell’evento non vi è ancora uniformità di giudizio su quali fossero state le cause di quel tracollo.

L’opinione prevalente è che si sia trattato di una reazione violenta alla bolla speculativa, iniziata a fine 1986, che aveva determinato in quell’anno un forte apprezzamento del mercato.

3. Ancora diversa fu la crisi del ’73-’74. Questa, a differenza delle altre due, è quella che più si avvicina al concetto di bear market. Non solo, infatti, il mercato perse oltre il 40% dai massimi, ma impiegò ben 10 anni prima di recuperare il terreno perduto e far segnare nuovi massimi.

Considerati questi tre esempi di crisi recenti dei mercati azionari, può essere utile cercare di capire a quale di questi tre casi assomigli maggiormente l’attuale momento negativo delle Borse, per trarne indicazioni di comportamento.

Intanto ci rassicura la convinzione che per il momento non ci troviamo in una fase di bear market di lungo periodo.

Infatti, secondo la teoria di Ian Notley, che ha condotto uno studio approfondito sui trend di lungo periodo, un mercato si trova in una fase “orso” se si verificano almeno tre delle seguenti condizioni:

1. è mutata radicalmente la psicologia dominante sul mercato da positiva ottimista verso negativa diffidente;

2. viene ridotta sensibilmente la quota di investimento detenuta in azioni da parte di investitori istituzionali ed operatori privati;

3. vengono annullati gli eccessi speculativi dell’ultima fase di rialzo;

4. viene meno l’eccessiva attenzione dei media e l’emotività che la notizia in prima pagina crea negli investitori.

E’ evidente che la prima e la terza di queste condizioni sono oggi verificate, mentre per quanto attiene alle altre, qualche dubbio è lecito.

In particolare, la quarta non ha bisogno di troppe parole, tanto è sotto gli occhi di tutti l’intersesse con cui giornali e televisioni, anche quelli non specificamente economici, dedicano ai temi finanziari di questi giorni.

Occorre, però, occuparsi più diffusamente della seconda condizione, che non è immediatamente intuibile.

Da un lato, infatti, vi è un incremento della liquidità nei portafogli dei fondi americani, dall’altro, comunque, il sentiment dominante è ancora positivo, visto che i flussi sui fondi azionari USA sono ancora pari a circa la metà della media degli ultimi quattro anni (non vi è stata quindi una vera e propria fuga dal mercato azionario).

Inoltre, dalle sale operative delle grandi banche, i traders e i brokers fanno notare che i capitali che al momento fuoriescono dai mercati azionari di tutto il mondo non trovano un impiego strutturale in forme alternative di investimento.

Sembra quasi che le parole d’ordine siano liquidità e breve termine, come a voler parcheggiare i capitali in attesa di un pronto ritorno sull’equity.

Ne è prova il fatto che nei giorni scorsi i Titoli di Stato americani ed europei hanno visto una decisa sovraperformance sul segmento a brevissimo termine (in Italia c’è stata una riscoperta dei vecchi BOT) e sul segmento a 2-3 anni del reddito fisso.

Non si è verificata, invece, una corsa all’acquisto dei titoli decennali, tradizionalmente favoriti in fenomeni di crisi mondiali. Inoltre, il concentrarsi su strumenti liquidi è reso evidente dall’improvviso allargamento degli spread di rendimento dei titoli governativi tra paesi core (USA e Germania) e periferici (come l’Italia).

Ancora. Se si trattasse di una fase di profondo bear market sul mercato USA, con una recessione in atto, si dovrebbe assistere ad un marcato indebolimento del dollaro, che invece ha continuato a rafforzarsi nei confronti di tutte le valute.

Tornando quindi all’interrogativo posto all’inizio, cioè cercare di capire a quale delle grandi crisi del passato più si accosti quella attuale, chiarito che non si può ancora parlare di vero e proprio mercato bear, occorre considerare che qualsiasi analisi va condotta non tanto sul Nasdaq, quanto piuttosto sullo S&P500, che meglio rappresenta l’economia americana e gode di una minore volatilità.

Questo perché l’andamento dell’indice dei titoli tecnologici, nato nel 1971, è stato distorto tra il ’99 e i primi mesi del 2000 da una situazione probabilmente irripetibile, tipica di una bolla speculativa, sostenuta da una condizione di liquidità straordinariamente favorevole e da un evento peculiare come la diffusione di internet.

Fatta questa premessa si può ragionevolmente sostenere che l’attuale momento di mercato non è paragonabile né alla crisi del ’73-’74 né a quella del ’98. La prima, infatti, fu generata dallo shock petrolifero che comportò un rialzo consistente dell’inflazione e un forte rallentamento dell’economia mondiale; la seconda, come già detto, fu di natura prettamente finanziaria e non determinò consistenti conseguenze sull’economia reale.

Si ritiene, pertanto, che la situazione attuale sia per alcuni versi simile a quella dell’’87 (adesso come allora, scoppio di una bolla speculativa), anche se manca per lo S&P500 e per il Dow Jones una correzione così profonda e violenta come quella verificatasi in quell’anno.

E quello che è successo nell’ultima settimana, con vendite generalizzate su tutti i settori, è un segnale che il mercato tende a ripetere il comportamento tenuto nel 1987.

Allora lo S&P500 perse il 33% dai massimi, ora siamo al 26% Se assumiamo che l’economia americana non sia in recessione, ma solo in una fase di rallentamento (e i recenti dati, nonché le dichiarazioni di Greenspan sembrano confermarlo), è lecito attendersi che la correzione non possa estendersi per molto (c’è spazio ancora per circa un 7%-8%).

In più, nel 1987 l’ultimo movimento di ribasso è stato accompagnato da un peggioramento delle aspettative degli operatori, e da una conseguente fase di panic selling.

E’ probabile che lo scenario che ora si sta delineando sia lo stesso. Il sondaggio mensile di Gallup per la banca d’affari Merrill Lynch è una delle diverse testimonianze del crescente pessimismo fra i money manager internazionali.

Secondo l’indagine, che coinvolge un campione di oltre 200 gestori di tutto il mondo, la percentuale di quanti credono che l’economia USA stia per entrare in recessione è quasi raddoppiata, passando dal 23% di dicembre al 45% di marzo. Questo ha determinato nel breve periodo una revisione al ribasso delle aspettative sull’EPS del 2001, scese ormai al 2.9%.

Secondo la chiave di lettura che si è appena fornita, però, il quadro non è così negativo come appare, ma potrebbe anzi essere foriero di buoni auspici: l’esperienza del 1987 ha insegnato, infatti, che la fine del bear market è solitamente associata ad un pessimismo diffuso sul mercato.

Il panic selling, se non è accompagnato da shock di natura esogena, come la crisi petrolifera del ’73 o da una guerra, è paradossalmente un segnale che si stanno creando sul mercato le condizioni per un recupero delle borse.

In sintesi, quando viene meno l’atteggiamento strutturalmente rialzista degli operatori (principalmente i fondi), spinti per loro natura a comprare nei momenti di debolezza (buy on dips), e prevale la convinzione che ogni minimo rimbalzo sia più un’opportunità di vendita che un tentativo di inversione del trend ribassista in atto, allora si è vicini alla fine della correzione.

E’ questa la conclusione cui giunge il già citato Ian Notley nei suoi lavori di analisi tecnica, volti a spiegare le fasi del mercato e l’atteggiamento degli investitori.

Stando a queste considerazioni, nel momento in cui si inizieranno a leggere con sempre maggior frequenza articoli all’insegna del panico e del pessimismo, sarà venuta l’ora di ricostituire posizioni lunghe, sfruttando, fra l’altro, valutazioni decisamente ridimensionate e prezzi scontati.

*Questo intervento e’ stato scritto da un’analista finanziaria italiana che ha chiesto l’anonimato, ma che attualmente gode della fiducia di Wall Street Italia.