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Pagare le tasse a una banda di ladri?

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Roma – La stangata di Ferragosto promulgata con il «cuore che gronda sangue» dal commediante che ci governa, NON era inevitabile. Provvedere a una gestione risoluta dei conti pubblici nel precedente triennio della crisi mondiale, anziché inscenare la recita compiaciuta di una nostra falsa buona salute, ci avrebbe risparmiato questo tardivo e disperato ricovero in pronto soccorso. Ora pagheremo, e salato. Per di più con l’odiosa sensazione di pagare a dei ladri, visto che nel frattempo continuano a uscire le notizie dei bonifici da milioni di euro in ballo fra compari d’affari e politica: da Berlusconi a Dell’Utri; da Angelucci a Verdini; e compagnia bella.

State tranquilli che le loro ville sontuose collocate in riva ai laghi, su colli toscani, su coste smeralde o nei paradisi fiscali, mica verranno conteggiate dalla proporzionalità della tassazione. Noi ricchi verremo conteggiati in base al reddito dichiarato (figuriamoci!) e non certo al patrimonio che resta occultato, né ai consumi privilegiati. Scommetto che la maggioranza degli attuali governanti ha già provveduto da tempo a costituirsi una riserva di denaro all’estero, mentre i loro sottoposti fanno invano la fila nel Canton Ticino, dove le banche svizzere registrano il tutto esaurito delle cassette di sicurezza.

Il ritardo e l’iniquità della manovra che questa classe dirigente non aveva l’autorevolezza di promuovere – difatti rifiutava di agire, finché gliel’hanno dovuta imporre entità sopranazionali – si manifesta nella più classica delle modalità terminali: si salvi chi può.

Ora che non basta più colpire i soliti noti (giovani, lavoratori del settore privato, dipendenti pubblici, pensionati), i veri ricchi e i veri potenti di questa classe dirigente scaricano gli ulteriori sacrifici necessari sulle figure intermedie del loro sistema in rovina. Non a caso ci casca un Di Pietro, che prende sul serio le «luci» della manovra perché come Berlusconi impernia la sua politica sulla demagogia degli annunci vistosi, come la presunta abolizione di 50 mila poltrone negli enti locali. Che sovrasta provvedimenti sostanziali come la deroga ai contratti nazionali di lavoro e l’inevitabile boom di nuove tasse municipali e regionali, portatori di acute sofferenze sociali.

Non potevamo certo aspettarci che il diktat proveniente dalle istituzioni europee contemplasse vincoli di giustizia sociale e redistribuzione equa della ricchezza. I tecnici applicano regole economiche di mera compatibilità, come tali ineludibili, ma spetterebbe ai politici indirizzarle a tutela dei ceti sociali svantaggiati. Sarebbe stato ingenuo pensare che tale esigenza venisse avvertita da una nomenclatura cleptomane resasi artefice nel corso degli anni di un imponente dirottamento della ricchezza nazionale a vantaggio di rendite e profitti.

Quest’ultima non è una particolarità italiana. Ma è solo in Italia, fra i Paesi industrializzati dell’Occidente, che l’acuirsi delle disuguaglianze ha subito un’accelerazione così sfacciata. L’autunno si preannuncia gravido di effetti nefasti sull’economia reale, cioè sulle condizioni di vita della maggioranza delle famiglie. Senza alcuna ragionevole certezza che la stangata di Ferragosto basti a metterci al riparo dalle tempeste della speculazione finanziaria.

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