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Oro: si al “reverse charge”. Anzi no

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Milano – Mentre le cronache si dibattono sui continui casi di ricettazione e, in generale, di infiltrazione criminale nel settore dei compro oro, nelle aule dei congressi (ed in quelle di tribunale) la questione principale rimane l’applicazione del regime Iva più adeguato.

Da un lato i compro oro che rivendicano la possibilità di accedere al cd. privilegio del reverse charge, che consente loro di non pagare l’IVA al margine; dall’altro, gli operatori professionali – oltre che la Guardia di Finanza – lamentano una indebita applicazione di tale regime, proponendo sanzioni per i trasgressori.

Non è certo questa la sede per stabilire a chi appartenga la ragione, ma certamente è quella giusta per indagarne i presupposti e, talvolta, le forzature interpretative.

Come doverosa precisazione, si badi bene che qualora si cercasse un colpevole lo si troverebbe senza dubbio nel lassismo del legislatore che per anni non ha provveduto a riformare in maniera efficace il sistema, lasciando così un vuoto normativo colmato solo in parte dalla giurisprudenza tributaria e da sporadiche pronunce dell’Agenzia delle Entrate. Proprio una di queste (del 2002) ha generato un primo equivoco di fondo: nel dispositivo del parere in questione, l’AdE affermava l’”insuscettibilità al consumo finale” e la conseguente “assimilazione a materiale d’oro” dei cd. rottami aurei acquistati dai compro oro e ceduti successivamente alle fonderie.

Questa interpretazione (che pur affermando, nega!) tuttavia non sembrerebbe spalancare le porte ad un’incondizionata applicazione del reverse charge ai compro oro, poiché è la stessa Autorità a chiarire ulteriormente che “la predetta vendita di rottami di gioielli d’oro, in sé non suscettibili di utilizzazione da parte del consumatore finale, ad un soggetto che non li destina (né può destinarli) al consumo finale, ma li impiega in un processo intermedio di lavorazione e trasformazione, possa essere assimilata a cessione di materiale d’oro o semilavorato”. Vale a dire che è necessario indagare la destinazione del finale del monile: qualora venga fuso per ricavarne il fino, l’attività è certamente assimilabile all’”uso industriale” e pertanto rientrante nell’alveo della legge di settore (l. 7/2000); se invece, a seguito di lavorazione, il gioiello viene riproposto sul mercato, si applicherà il regime ordinario dell’IVA.

Fin qui sembrerebbero non esserci dubbi se non che i compro oro, grazie a questa interpretazione, ritengono di poter accedere al regime IVA dell’inversione contabile (ossia il reverse charge). La motivazione starebbe nel fatto che il cedente (ovvero il compro oro) non può sapere cosa ne verrà fatto dell’oro ceduto. Questa interpretazione tuttavia non appare convincente soprattutto alla luce del fatto che nella stragrande maggioranza dei casi l’oro usato viene ceduto alle fonderie che ne ricavano oro da investimento, pronto per essere esportato. Un po’ come salire sull’autobus senza il biglietto e giustificarsi col controllore dicendo di non sapere dove l’autobus andrà.

Nelle aule delle facoltà di giurisprudenza si insegna sin dai primi anni che per una corretta interpretazione di una legge si debba ripartire dal valore letterale della legge stessa, per cogliere l’essenza di quanto disposto dal legislatore. Ebbene, l’unica legge di riferimento (ad oggi) del settore è la l. 7/2000 che, con una serie di disposizioni, assegna agli operatori professionali (ossia coloro che possiedono un’autorizzazione della Banca d’Italia a commerciare in oro) alcuni privilegi tra cui proprio l’applicazione in via esclusiva del reverse charge, in virtù di stringenti presìdi di ordine societario e di onorabilità.

La logica dell’interpretazione è quella di riservare l’esercizio in via professionale del commercio di “oro da investimento” e di “materiale d’oro”, compresa la lavorazione/fusione dell’oro e la cessione ad affinatori esterni per il recupero del fino contenuto.

Eppure tale interpretazione, come già visto, è stata (parzialmente) smentita anche da una nota di chiarimenti (siamo nel maggio 2010) della stessa Banca d’Italia, soprattutto in riferimento all’utilizzo dell’inversione contabile ai fini IVA per i compro oro. Giova ricordare infatti come, accettando questa interpretazione, si deve considerare la cessione dei beni come “materiale d’oro” quindi legittimando di fatto il semplice compro oro a commerciare a livello industriale. Ciò parrebbe in evidente contrasto con quanto disposto dalla stessa legge e, pertanto, ad oggi non applicabile con una semplice estensione interpretativa. Doverosa precisazione a beneficio degli scettici: quella della Banca d’Italia, seppur si tratti di atto di stimabile valore, non è che una nota interpretativa, contrariamente a quanto viene asserito definendola una circolare. La differenza è sostanziale ed è stata chiarita anche da recenti pronunce del Consiglio di Stato. Chiamarla “circolare” equivale a snaturarla e darle forzosamente un ruolo che semplicemente non ha in chiave di cogenza: una circolare impone, una nota interpretativa spiega.

La giurisprudenza tributaria, dal canto suo ha contribuito in maniera decisiva a questa indefinitezza con pronunce diametralmente opposte. L’ultima in ordine di tempo sembrerebbe affermare con decisione che il compro oro sprovvisto di iscrizione all’albo degli operatori professionali non possa commerciare in semilavorati o rottami di gioielli, essendo noto che i soli qualificati a questo tipo di commercio sono quelli regolarmente ad esso iscritti e che tali beni (rientrando nella definizione della l. 7/2000) possono essere commercializzati in via esclusiva dagli operatori professionali in oro. E’ da escludere in tal senso qualsiasi tipo di attività esercitata da soggetti autorizzati al solo commercio di preziosi, intesi come oggetti finiti, quali per l’appunto i compro oro. A questi, conclude la sentenza, si riserva l’applicazione alle cessioni i metodi ordinari con il calcolo dell’ IVA a margine.

Nell’attesa che anche questo orientamento venga smentito, il legislatore sta finalmente tentando di risolvere la questione attraverso un’organica riforma che dia la corretta risposta a questa e ad altre questioni che meritano di essere definitivamente risolte.

Il settore ha bisogno di poche regole ma certe e la loro definizione non può che passare da un dialogo costruito sul confronto tra le parti in causa. Le motivazioni degli uni e degli altri, scevre da forzature interpretative, meritano senz’altro di essere accolte fino a giungere ad una soluzione compromissoria che possa giovare prima di tutto all’ordinamento e ai consumatori, l’unica vera ricchezza che meriterebbe di essere finalmente tutelata.

Ma questo le parti in causa, nessuno escluso, sembrano ancora non averlo capito.