Columbia Threadneedle: l’Italia è l’economia dell’eurozona più probabilmente avviata verso un decennio perduto
Come ha scoperto il Giappone a proprie spese, un settore bancario solido è fondamentale per ridare slancio a un sistema economico. Ma la terza maggiore economia europea, con le sue banche ampiamente sottocapitalizzate, sembra destinata a una lunga stagnazione
Il Giappone offre insegnamenti preziosi per l’eurozona. A dieci anni dall’inizio della crisi finanziaria globale si osservano notevoli somiglianze tra la situazione attuale dell’area euro e quella in cui versava il Giappone un decennio dopo la crisi bancaria nipponica dei primi anni ’90. Esaminando l’andamento dei tassi di riferimento delle banche centrali e dei rendimenti dei titoli di Stato, l’eurozona sembra trovarsi in una posizione simile a quella in cui si trovava il Giappone dieci anni dopo l’espansione monetaria avviata dalla Bank of Japan negli anni ’90.
A ben vedere, i rendimenti obbligazionari dell’area euro sono oggi più bassi del livello raggiunto dai loro omologhi giapponesi un decennio dopo l’inizio della crisi bancaria nipponica: i Bund decennali tedeschi presentano attualmente un rendimento negativo, mentre nel 2001 i titoli di Stato giapponesi di pari scadenza offrivano un rendimento di poco inferiore all’1,5%. L’inflazione e la crescita economica nell’eurozona sono analogamente depresse, e riteniamo che la regione rimarrà in una fase prolungata di crescita e inflazione modeste avendo già attraversato un periodo analogo al “decennio perduto” di deflazione e stagnazione economica vissuto dal Giappone tra il 1991 e il 2001.
Ciò avrà inevitabilmente ripercussioni negative sui mercati azionari. I motivi per cui le prospettive economiche dell’eurozona appaiono così deboli sono molteplici. In primo luogo, non prevediamo né significative pressioni inflazionistiche né un’accelerazione della crescita economica nel medio periodo; di conseguenza, i tassi d’interesse rimarranno sui minimi storici o quasi.
Inoltre, con rapporti debito pubblico/PIL prossimi ai massimi storici nell’intero blocco monetario europeo, la Banca centrale europea (BCE) sarà costretta a mantenere i tassi d’interesse contenuti per ridurre al minimo i costi del servizio del debito. Nell’eventualità di un rialzo dei tassi, gli elevati rapporti debito/PIL diventerebbero un grave motivo di preoccupazione. In particolare, un’impennata dei tassi in Italia (dove i costi del servizio del debito sono ancora a malapena gestibili) avrebbe conseguenze molto gravi per il settore finanziario e per la più ampia economia dell’eurozona.
La debolezza delle banche limita la crescita
In effetti, l’Italia è la nostra maggiore causa di apprensione nell’eurozona. I problemi del paese non si limitano all’elevato rapporto debito pubblico/PIL (che a oltre il 132% è il più elevato dell’area euro dopo quello della Grecia) e al ristagno della sua economia, che dall’inizio del 2018 si trova sull’orlo della recessione. Timori maggiori giungono dalle banche del paese, che rimangono ampiamente sottocapitalizzate. In assenza di misure significative per sostenere il settore bancario, l’economia italiana sembra destinata a rimanere in stagnazione. Questo perché in Italia, e nell’eurozona più in generale, le banche giocano un ruolo essenziale nel finanziare il settore privato. Al contrario, i mercati dei capitali svolgono una funzione più importante negli Stati Uniti, dove solo il 30% circa delle imprese si finanzia tramite prestiti bancari.
Nell’area euro (e in Giappone) tale percentuale si aggira intorno al 75%. Come ha scoperto il Giappone a proprie spese, un settore bancario solido si è dimostrato fondamentale per ridare slancio al sistema economico. Questo vale anche per l’area euro. Inoltre, essendo l’Italia la terza economia dell’eurozona, il suo benessere economico ha ramificazioni per l’intera area valutaria.
In circostanze normali, quando le banche centrali riducono i tassi, i prenditori approfittano del minor costo del denaro per investire e spendere, esercitando così un’azione di stimolo sull’attività economica. Tuttavia, con un settore bancario debole questo canale di trasmissione non funziona. Per quanto le banche centrali come la BCE possano adottare un orientamento accomodante sui tassi, il meccanismo della politica monetaria si inceppa.
Consideriamo il caso del Giappone, dove la domanda di credito ha subito una battuta d’arresto. In termini nominali, lo stock dei prestiti in essere in Giappone è inferiore al livello del 1997. A dieci anni dalla crisi finanziaria l’Italia si trova in una situazione simile, poiché lo stock di prestiti alle piccole e medie imprese continua a ridursi. Il timore è che, nonostante questi segnali di avvertimento, i politici italiani non riescano ad affrontare le criticità che affliggono le banche del paese.
Paesi come gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Spagna e l’Irlanda hanno risolto velocemente il problema. Le banche hanno effettuato accantonamenti a fronte di perdite sulle attività non produttive nel settore privato e hanno ridotto rapidamente la leva in bilancio.
L’indebitamento (e la spesa) del settore pubblico sono aumentati per controbilanciare il rallentamento dell’attività aziendale, contribuendo a stabilizzare la crescita del credito, la crescita del PIL e la creazione di posti di lavoro.
Necessità di una ricapitalizzazione diffusa
Qualche progresso tuttavia è stato fatto. Nel 2017 la BCE ha promosso con successo la ricapitalizzazione di Monte dei Paschi, una delle maggiori banche italiane. Il governo ha inoltre istituito il “GACS”, un meccanismo di garanzia statale studiato per aiutare le banche a disfarsi dei crediti deteriorati. Ma con circa un quarto dei crediti deteriorati dell’eurozona iscritti nei bilanci degli istituti italiani, resta ancora molto da fare. Secondo le nostre stime, le banche del Bel Paese hanno bisogno di un’iniezione di capitale compresa tra i 30 e i 40 miliardi di euro, pari a circa il 2% del PIL, un importo significativo alla luce del già eccessivo rapporto debito/PIL del paese.
Un consolidamento transfrontaliero del sistema bancario sarebbe d’aiuto – le casse di risparmio francesi, ad esempio, siedono su circa 30 miliardi di euro di capitale in eccesso – ma permangono imponenti ostacoli politici alle fusioni. Senza una qualche forma di ricapitalizzazione del settore bancario italiano, le imprese del paese saranno private dei capitali di cui hanno bisogno per crescere. Mentre il governo italiano ha disperatamente bisogno di una solida ripresa della crescita economica per alleviare l’elevato onere debitorio, pochi politici hanno piani convincenti per rivitalizzare l’economia o ridurre il deficit, che nelle previsioni dell’UE dovrebbe superare il 3,5% nel 2020.
Gli investitori dovrebbero quindi prepararsi a continui attriti tra Roma e Bruxelles, con la conseguente volatilità dei mercati azionari e obbligazionari italiani.
Gli attesi tagli dei tassi e la ripresa degli acquisti di titoli da parte della BCE dovrebbero fornire sostegno ai mercati. Ciò nonostante, rimane il duplice problema sottostante dell’elevato debito pubblico e della sottocapitalizzazione delle banche. In assenza di misure concertate per sostenere gli istituti italiani, lo scenario più ottimistico per l’Italia è caratterizzato da una crescita economica sottotono riflessa da rendimenti azionari deludenti. Nel peggiore dei casi, invece, si potrebbe registrare una crisi del mercato obbligazionario e dei finanziamenti che finirebbe per travolgere i mercati azionari e del debito dell’eurozona. Con l’Italia che sembra assumere connotati giapponesi, questa rimane una preoccupante possibilità.