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OCCHIO AI TASSI E ALLO SCOPPIO DEL PRIVATE EQUITY

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(WSI) –
Quali sono i motivi che hanno spinto i tassi a lungo termine al rialzo? E questo movimento è destinato a continuare? Sono queste le domande che assillano gli operatori e che hanno depresso negli scorsi giorni i mercati azionari. Nel giro di due mesi i rendimenti dei Buoni del Tesoro decennali americani sono saliti dal 4,5% fino al 5,14%, correggendo quindi quello che Greenspan aveva definito «l’enigma» di una curva dei tassi inversa. Un movimento analogo è riscontrabile anche in Europa, dove i rendimenti dei Bund tedeschi hanno toccato il 4,6% giovedì scorso; in Svizzera, dove le obbligazioni della Confederazione hanno sfiorato il 3,2% e persino in Giappone.

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Un movimento di questa portata non può essere unicamente ascritto a previsioni economiche maggiormente ottimistiche, né al rialzo al 4% dei tassi europei da parte della Bce, né alle dichiarazioni del presidente della Federal Reserve Ben Bernanke, che ha fatto chiaramente intendere che per quest’anno non vi è da attendersi un taglio del costo del denaro negli Stati Uniti. Questi possono essere ritenuti al massimo i fattori che hanno scatenato la correzione dei corsi obbligazionari. Le cause vere sono però probabilmente altre e per cercare di identificarle bisogna ricordare le anomalie che hanno caratterizzato il comportamento dei mercati dei capitali negli ultimi anni.

Dal 2003, ossia da circa quattro anni, i tassi a lungo termine sono rimasti inspiegabilmente (anche per Alan Greenspan!) inferiori a quanto avrebbero dovuto essere. La causa prima di questo comportamento anomalo è stata sicuramente la politica monetaria espansiva condotta dalle maggiori banche centrali, combinata con la possibilità di molti investitori di finanziarsi a costi ancora inferiori indebitandosi in yen giapponesi e in franchi svizzeri (il famoso «carry trade»).

All’ampia disponibilità di liquidità offerta dai rubinetti lasciati aperti dalle banche centrali si è aggiunta la grande «fame» di obbligazioni da parte dei fondi pensione e assicurazioni. Questi ultimi, scottati dal «bear market» dell’inizio del decennio, compravano tutti gli strumenti finanziari che garantivano un reddito. Come se non bastasse, a questi acquisti di obbligazioni si sono aggiunti quelli delle banche centrali dei paesi che stavano accumulando ingenti riserve valutarie (dalla Cina al Giappone, ai paesi esportatori di petrolio). Quindi una domanda di obbligazioni superiore all’offerta e l’assenza di aspettative inflazionistiche hanno tenuto i tassi a lunga a livelli anormalmente bassi.

Ciò ha favorito ovunque un boom del mercato immobiliare e ha creato le condizioni ottimali per l’esplosione dei nuovi strumenti finanziari e soprattutto del fenomeno dei fondi Private Equity, che attuano le loro acquisizioni grazie ad un indebitamento che di solito supera l’80% del valore delle singole operazioni.

Paradossalmente, queste operazioni hanno contribuito a ridurre la carenza dell’offerta di obbligazioni, proprio mentre, dal lato della domanda, molti paesi hanno deciso di gestire in modo più attivo le loro riserve valutarie (ossia di comprare meno obbligazioni) e proprio mentre la politica monetarie di alcune banche centrali si sta facendo meno accomodante. Il risultato è stato un balzo dei rendimenti e, quindi, del costo del denaro, che non è destinato a rimettere in discussione le prospettive di crescita dell’economia mondiale, ma la validità delle operazioni finanziarie di quelli che sembrano i nuovi padroni dei mercati finanziari, ossia i gestori degli Hedge Funds e dei fondi di Private Equity.

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