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Monete, il risiko dei perdenti

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Quando anche la Svizzera entra in guerra, i problemi sono proprio seri.

L’annuncio da parte della neutralissima confederazione elvetica che la banca centrale di Berna è pronta ad utilizzare «quantità illimitate» di denaro per mettere fine ad un rialzo del franco e far respirare l’economia interna, segna l’inizio ufficiale della «guerra delle monete».

La crisi che sta indebolendo l’America, corrodendo l’euro e mettendo a repentaglio la crescita-razzo dei Paesi emergenti ha spinto nazioni dell’Est e dell’Ovest verso una collisione monetaria.

L’obiettivo di questa particolarissima guerra, in realtà, è perdere – un gioco al ribasso in cui ogni Paese tenta di far deprezzare la propria divisa per stimolare le esportazioni e far ripartire l’economia.

Poliglotti cugini svizzeri, Willkommen, Bienvenue, Benvenuti sull’ affollatissimo campo di battaglia. Se guardate a destra vedrete la barba bianca di Ben Bernanke a capo dei battaglioni della Federal Reserve, che da mesi stanno combattendo contro le orde germaniche con l’euro sullo stendardo.

Dietro la collina ci sono i kamikaze giapponesi, sempre più disperati. I loro attacchi per tenere lo yen sotto controllo sono falliti, affondando un’economia che non cresce da più di un decennio.

E più in là, fate attenzione ai cinesi per cui la debolezza del renminbi è un articolo di fede – un pilastro di un’ economia costruita sulle esportazioni. Le urla che sentite? Sono gli eserciti brasiliani e turchi che protestano contro un’Occidente che continua ad investire nei loro Paesi, gonfiando le valute e strangolando le esportazioni.

Visto dall’alto, è uno spettacolo deprimente: le più grandi economie del pianeta che si azzuffano per vincere il premio per la moneta più flaccida del mondo. Questo Risiko dei perdenti è un segnale lampante dell’impotenza di governi e banche centrali nell’attuale frangente economico. Privi di altre armi – perché nessuno vuole alzare le tasse o prendere altre decisioni serie sull’austerità fiscale – i potenti del pianeta scommettono tutto sul minimo comun denominatore di esportazioni e monete flebili.

Dopo aver rovistato nel vasto arsenale delle loro politiche economiche, l’unica cosa che i potentissimi Bernanke, Jean-Claude Trichet e Barack Obama sembrano aver trovato sono i trucchetti dei governuncoli italiani prima dell’avvento dell’euro: svalutazioni e parole, parole e svalutazioni.

Per i mercati, gli investitori, ed anche la gente comune, la domanda più importante, a questo punto, e se questa baruffa delle divise produrrà un vincitore. La risposta è a trabocchetto: o tutti o nessuno. Se la guerra delle monete porterà ad una pace delle economie sarà perché la corsa verso il fondo è stata così sfrenata da convincere consumatori, aziende e governi a ricominciare a spendere.

C’è un parallelo storico importante: durante la Grande Depressione degli anni 1930, l’America e l’Europa presero parte in un’orgia di svalutazioni simile alla spirale odierna. Per un periodo, il risultato fu la stasi economica: con monete tutte deboli ed economie in difficoltà, le esportazioni si bloccarono.

Dopo un po’ di tempo, però, la montagna di soldi creata per tenere le divise basse – e i tassi d’interesse zero – arrivò nelle tasche di imprenditori, lavoratori e operatori di Borsa, spronando investimenti e consumi. L’economia mondiale si salvò non, come credevano erroneamente i profeti della svalutazione, perché tutti i Paesi riuscirono ad esportare beni e servizi allo stesso tempo ma perché, a lungo andare, il denaro stampato dalle banche centrali deve essere speso.

Gli economisti, amanti dell’astratto, parlano di riflazione e aumento della domanda, ma io preferisco paragonare questo effetto ad una Bialetti sul fornello: se il gas è acceso, prima o poi la pressione sarà tale che l’acqua si trasformerà in caffè.

E se venisse a mancare il gas? C’è una possibilità che, viste le condizioni pessime dell’economia mondiale, la guerra delle monete si trasformi in battaglia all’ultimo sangue con una sola, grande vittima: la globalizzazione. Il fattore determinante della nostra epoca – almeno a livello economico – è stato l’aumento esponenziale nel commercio tra nazioni, facilitato dal progresso tecnologico e dalla fine della guerra fredda.

I giovani degli Anni 60 erano cresciuti con l’idea che dovevano cambiare il mondo, la mia generazione, invece, è sempre stata convinta che il mondo se lo poteva comprare. Mi spiego: da decenni, ormai, siamo abituati ad acquistare carrozzine made in China, giacche fatte a Hong Kong e macchine costruite dal Messico al Brasile alla Polonia – a prezzi molto più bassi che se fossero state prodotte nella vecchia Europa o in America.

Per i consumatori di oggi, la globalizzazione del commercio è ovvia e la sua permanenza è data per scontata. Ma che succederebbe se il mondo, invece di essere piatto come ci ha detto Thomas Friedman nel suo best-seller, fosse pieno di angoli, barriere e fili spinati?

Una guerra delle monete in un periodo di contrazione economica può senz’altro portare ad un’ esplosione di protezionismo. Non è difficile per un politico opportunista strumentalizzare il tasso di disoccupazione elevato e la crescita anemica di un Paese per attaccare governi stranieri o, peggio ancora, gente non «del posto». Molte guerre vere – quelle combattute con le armi – in passato sono iniziate con tensioni economiche che portano a diffidenza tra governi e si trasformano poi in ostilità aperta.

La buona notizia è che, al momento, questa versione apocalittica della guerra delle monete non è ancora realtà. Parlando con politici e banchieri centrali la mia impressione è che i potenti del pianeta capiscono chiaramente che commercio e collaborazione internazionale sono l’unica via d’uscita da questo labirinto di problemi economici.

La presenza del ministro del Tesoro americano Tim Geithner al summit dei ministri delle Finanze europei lo scorso venerdì a Bruxelles è un esempio degli sforzi euro-americani per risolvere la crisi. Il dialogo tra i due blocchi rimane fondamentale, anche quando, come nel caso di Geithner, gli americani vogliono dare lezioni agli europei sul come affrontare questi difficili passaggi. Nella battaglia contro la recessione mondiale, nessuno si può permettere di essere neutrale. Nemmeno la Svizzera.

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