Società

MINACCE DI MORTE CONTRO OBAMA, SCORTA FBI

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(WSI) –
Lui non avrebbe voluto, si era opposto, ma alla fine ha dovuto cedere alla realtà di una storia americana che ha troppi precedenti e troppe croci per non essere presa sul serio: Barack Hussein Obama, il primo candidato afro-americano con una possibilità reale di diventare presidente ha accettato di essere protetto dal Servizio Segreto, dagli stessi agenti che difendono Bush e gli alti papaveri del governo, incaricati di «incassare un proiettile per salvare la vita degli altri».

Troppe minacce, troppo odio, troppe notizie false e calunnie incendiarie, come quella diffusa dagli “agit prop” del reverendo Moon e dai media della destra come la Fox che lo accusarono di avere frequentato «madrase» di islamisti in Indonesia, perché lui, e il governo, potessero correre il rischio di un altro Martin Luther King 30 anni dopo.

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Era inevitabile che accadesse, per questo uomo politico che vedrà crescere l´odio contro di lui con il lievitare della sua popolarità in aumento e che lui affronta senza timore di apparire davvero, e non solo nella tinta della pelle, diverso. In un America ingessata dal «politically correct» di destra e di sinistra, era arrivato a dire verità brutali ma coraggiose anche ai propri fratelli e sorelle di colore.

Basta, predica il senatore Barack Hussein Obama, con l´autocommiserazione e l´autoesclusione, con l´assenteismo elettorale, con il rifiuto dell´intellettualismo, con la formula micidiale che i ragazzi usano per abbattere i compagni che vanno bene a scuola e sono accusati di «act white», di «fare l´uomo bianco». Perché «nessun programma municipale o pubblico di risanamento dei quartieri e dei ghetti può funzionare se noi continuiamo a buttare la spazzatura per strada dai finestrini delle auto o dalla finestre della case». Non più soltanto diritti, dunque, ma anche doveri.

Se un candidato bianco di carnagione osasse dire le stesse cose nelle chiese battiste del Sud che il senatore sta battendo, sarebbe buttato fuori dalla chiesa. Ma quando Obama predica le sue verità sgradevoli e politicamente scorrette, i giovani lo guardano un po´ storto dai banchi, ma le loro mamme annuiscono, i non moltissimi mariti presenti applaudono, il coro risponde, come alle omelie del pastore, «alleluja» e «that´s right», è vero, hai ragione. «Soltanto lui potrebbe dire queste cose alla comunità afro» dice uno dei suoi mentori, il professore Charles Ogletree di Harvard, dove il senatore studiò giurisprudenza.

Era da trent´anni, da quando un senatore bianco di origine irlandese, Patrick Moynhah osò scrivere in un contestatissimo rapporto che povertà, criminalità, gravidanze adolescenziali erano un problema di responsabilità individuale e non soltanto di storia, o di politiche statali o sociali, che nessuno osava sfondare la barriera dei luoghi comuni e delle formule usate dai leader di colore come Jesse Jackson o Alan Sharpton. E se il figlio di un kenyano e di un´americana del Kansas di origine irlandese mostra coraggio, il suo richiamo alla responsabilità ha obbiettivi politici più nascosti e più sottili, per le sue ambizioni elettorali.

Obama parla infatti alle comunità nere perché i bianchi ascoltino, perché vedano in lui non più il solito predicatore che intona le formule care al proprio elettorato di minoranza, per mantenere la propria fettina di potere. Dice a quell´elettorato americano disgustato da Bush e che sempre più pende dalla parte dei Democratici ormai con un rapporto di 3 a 2, le cose che il moderatismo centrista pensa, ma non osa dire apertamente, che nell´America del 2007 le nuove generazione di ragazzi di colore possono e devono assumersi la responsabilità della propria vita e della propria condizione, battendo su quella parola magica, «doveri». E, secondo obbiettivo, si vuole distinguere e caratterizzare come il candidato non si nasconde dietro formule sicure, al contrario di ciò che la sua rivale fa.

Barack Obama cerca di essere, senza dirlo, l´anti Hillary. E finora i sondaggi lo confortano, dicendo, nell´ultimo pubblicato ieri, che lui, il senatore di Chicago con le orecchie a sventola e una calma surreale, batterebbe sul piano nazionale il fremente e colorito campione dei repubblicani, il «sindaco d´America», Rudy Giuliani per 44 a 42, mentre la Clinton non più Rodham (il nome da ragazza è stato di nuovo abbandonato in favore del solo cognome da sposata) insegue Giuliani, per 43 a 47. Anche McCain sarebbe battuto da Obama, mentre batterebbe Hillary. Ma l´ostacolo, per il senatore, sono le elezioni primarie, il voto interno al partito democratico per scegliere il candidato finale, nelle quali la potenza finanziaria della «Clinton machine» e il controllo delle leve interne, rende la senatrice intoccabile.

Per battere Hillary, che tutti i sondaggi chiudono nel paradosso di essere colei che vincerà di certo la primarie soltanto per perdere di certo le elezioni generali, Obama punta su quell´America nera che lo aveva inizialmente guardato con sospetto. Il senatore ha un formidabile vantaggio sulla senatrice nel rapporto fra chi ha un´opinione favorevole di lui (40%) e chi lo guarda con sfavore (18%) mentre la Clinton continua ad avere contro una maggioranza di elettori che la considerano insopportabile e non la voterebbero neppure se non avesse avversari (45 per cento anti, 43% pro).

Dunque, pungolare l´elettorato nero, chiamarlo, come ha osato fare lui, «Pookie», dal nome di una marionetta televisiva che si fa manipolare da altri, è un modo per mobilitarlo e ottenerne il voto necessario per sconfiggere prima Hillary e poi l´alfiere repubblicano nel novembre ‘08. Un´operazione coraggiosa, complessa, destinata ad attirargli critiche, come è stata la decisioni di mettere sotto controllo della sua campagna un popolarissimo sito internet, MySpace.com, che aveva raccolto già 160 mila suoi sostenitori oggi furiosi. Per condurre la sua operazione di equilibrismo Barack Hussein Obama deve essere sempre freddo, cinico, ma senza dare l´impressione di temere il proiettile di chi sarebbe ancora pronto a uccidere pur di non avere un nero alla Casa Bianca.

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