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MERCATI: PERICOLOSE VELLEITA’ RIALZISTE

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*Michele Pezzinga e’ lo strategist di CentroSim. I suoi commenti non implicano responsabilita’ alcuna per Wall Street Italia, che notoriamente non svolge alcuna attivita’ di trading e pubblica tali indicazioni a puro scopo informativo. Si prega di leggere, a questo proposito, il disclaimer ufficiale di WSI.

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(WSI) – Superato, con una pronta reazione, l’impatto emotivo legato alla
nuova ondata di attacchi terroristici, i mercati finanziari sembrano ora
sposare scenari persino migliori rispetto a quelli che avevamo lasciato a
fine giugno. Paradossalmente, proprio le capacità di tenuta dell’azionario
di fronte ai drammatici eventi di Londra hanno rafforzato tra gli
investitori le velleità rialziste, diffondendo la convinzione che i rischi
di caduta in questa fase siano molto contenuti e, per gli hedge funds, che i
tentativi di forzatura all’ingiù, almeno per ora, non paghino.

Ne sanno
qualcosa coloro che avevano venduto, anche solo per motivi precauzionali,
durante la convulsa seduta del 7 luglio. Ma è davvero cambiato il quadro di
riferimento? Sotto questo profilo, non ci sembra di cogliere novità
sostanziali rispetto ad un mese fa: i problemi strutturali, sostanzialmente
riconducibili all’economia USA e che ci facevano dubitare della
sostenibilità degli attuali trend, rimangono infatti sempre vivi.
Continuiamo inoltre a credere che tra altri tre-sei mesi l’aumento dei tassi
e il caro energia finiranno per frenare davvero i consumi delle famiglie
americane, vero motore della crescita globale.

Tuttavia, nelle ultime
settimane proprio da questi fronti sono giunti segnali più incoraggianti, a
nostro avviso solo interlocutori, ma comunque tali da spostare un po’ più
avanti nel tempo le temute verifiche di tenuta. Il disavanzo federale USA
del 2005, per esempio, viene ora visto in calo verso quota 330 mld di
dollari circa, 100 in meno rispetto a quello 2004 e alle proiezioni che
circolavano ad inizio anno. La notizia è confortante, anche se finora il
merito è stato del boom di entrate fiscali, più che di un taglio delle
spese, il che lascia dubitare dell’auspicato innesco di un circuito davvero
virtuoso.

Anche il deficit della bilancia commerciale USA ha registrato
un’altra contrazione in maggio, ma siamo pur sempre a quota 55,4 mld di
dollari, in progresso rispetto alla punta record di quasi 60 mld a inizio
anno, ma molto oltre rispetto ai 48,7 mld registrati dodici mesi prima. Le
proiezioni per giugno, a causa del rafforzamento del cambio e del balzo dei
prezzi dell’energia importata, puntano inoltre verso un netto peggioramento
(di nuovo verso quota 60 mld), che non sembra destinato a rientrare in
maniera significativa nella seconda metà dell’anno.

Se il disavanzo record
(che ormai viaggia su ritmi del 5,6% rispetto al PIL) era il sintomo di un
problema strutturale – l’eccesso di consumi delle famiglie americane
finanziato con il risparmio d’oltreoceano – questo non appare affare in via
di risoluzione; e anche il dollaro, ora contagiato da un diffuso consenso
rialzista, quanto prima dovrà tornare a renderne conto. Al tempo stesso, però, la maggiore e forse unica sorpresa negativa
di questa fase, il rinnovato balzo in avanti nelle quotazioni del greggio,
oltre la soglia finora inviolata dei 60 dollari il barile, non sembra aver
generato allarmi dal lato nè dell’inflazione, nè della crescita economica.

Dal punto di vista degli investitori azionari, una simile reazione
rappresenta un altro segnale decisamente rassicurante: se l’effetto di
un’ascesa da 50 a 60 dollari il barile non è tale da far deragliare crescita
e performance di Borsa, perchè mai le cose dovrebbero andare diversamente
qualora il greggio salisse ancora a 65 o a 70 dollari? L’esperienza passata
ci direbbe che l’impatto sulla congiuntura di incrementi annui del 30-40% è
tutt’altro che marginale e che si registra con la maggiore intensità solo 6
mesi-1 anno dopo gli aumenti sottostanti; ma nel clima attuale di
compiacente ottimismo sulle capacità di reazione delle economie, inclusa
quella di assorbire gli aumenti dei costi energetici, il rischio viene quasi
ignorato.

Qui dal nostro punto di vista potrebbe però esserci qualche
sorpresa positiva: condividiamo infatti l’idea che nelle ultime settimane i
prezzi del greggio abbiano mostrato eccessi di natura speculativa e che il
rallentamento della domanda reale di energia, in atto anche da parte dei
Paesi asiatici, Cina inclusa (-1,3% su base annua il suo import di greggio
in giugno e -21% quello di prodotti raffinati), possa produrre uno
sgonfiamento delle quotazioni, magari solo temporaneo, ma comunque
significativo. A neutralizzare i timori sul petrolio forse hanno provvidenzialmente
contribuito anche alcuni segnali di riaccelerazione dell’economia USA, in
grado di cancellare quei pericolosi indizi di frenata congiunturale che
avevamo segnalato ad inizio primavera.

Tenuto conto della forza dei consumi
– confermata ieri dal +1,7% delle vendite al dettaglio di giugno, di nuovo
trainate dal balzo del comparto auto (+4,8%) – e dalla tenuta degli
investimenti, il PIL americano sembrerebbe in grado di confermarsi in
crescita di circa il 3% anche nel 3° trimestre, un ritmo analogo a quello
stimato per il 2°, non eccezionale (era pari al 3,8% nel 1° trimestre 2005 e
al 4,4% per l’intero 2004) ma comunque soddisfacente, soprattutto rispetto
ai depressi standard europei. I dilemmi di fondo riguardano però le modalità
con cui si muoverà la congiuntura più avanti, diciamo nella parte finale
dell’anno: in altri termini se davvero l’economia USA riuscirà a viaggiare
ancora alla velocità attuale, se l’area euro riuscirà finalmente ad uscire
dalla stagnazione corrente e quanto sarà pronunciata la frenata della Cina,
e con essa dell’intero blocco asiatico, che ancora una volta si sta
iniziando a profilare. Tutti elementi ancora molto dibattuti tra gli addetti
ai lavori.

Rimane invece diffuso il consenso sul fatto che l’inflazione
continuerà a non rappresentare una minaccia concreta: a conferma di ciò
proprio ieri sono stati resi noti i prezzi al consumo USA di giugno, rimasti
invariati sul mese precedente e cresciuti solo di uno 0,1% esclusi
alimentari ed energia, un rassicurante +2% su base annua, ma soprattutto un
+1,2% annualizzato nell’ultimo trimestre, in netto calo da quel +3,3% che si
era minacciosamente profilato nel 1° trimestre 2005. Ha comunque ripreso
quota l’idea che la FED, dopo aver alzato i tassi di un altro quarto di
punto anche ad agosto, possa spingersi fin verso la soglia del 4% entro
l’inizio del 2006, un’ipotesi che a inizio giugno, con i bond ai massimi,
sembrava fin troppo aggressiva. Il focus della Banca Centrale non è infatti
sull’inflazione, ma sul persistente boom immobiliare da cui traggono
sostegno, indebitandosi a ritmi crescenti, i redditi (e i consumi) delle
famiglie: anche a costo di frenare ulteriormente la crescita del 2006
Greenspan dovrà quindi intervenire ancora su questa spirale, in modo da
scongiurare la formazione di una pericolosa bolla speculativa.

Per quanto riguarda invece la BCE, l’idea di un taglio dei tassi
entro fine anno, richiesto dalle difficoltà economiche e politiche
dell’area, ha perso quota; la Banca Centrale potrebbe quindi rimanere ferma
su questi livelli ancora a lungo, un cambiamento di prospettiva che ha
contribuito da un lato a rafforzare l’euro, riportandolo nelle ultime sedute
sopra quota 1.20 contro dollaro, e dall’altro a frenare l’euforia
sull’obbligazionario, dove la parte lunga della curva sembra aver esaurito,
almeno in questa fase, tutto il suo potenziale. In ogni caso, i rendimenti
obbligazionari, pur lievemente risaliti dai minimi di giugno, non ci
sembrano destinati a risalire molto dagli ancora contenuti livelli correnti
(un 4,16% sul decennale USA e un 3,29% su quello tedesco); i tempi per una
decisiva inversione di trend a nostro avviso non sono ancora maturi e anzi
dopo l’estate, se la ripresa non si farà strada, il tema del taglio potrebbe
tornare d’attualità.

Si tratta di livelli tali comunque da mantenere in vita
un significativo effetto liquidità, di cui continuano a beneficiare i
mercati finanziari e l’immobiliare. Gli spread sui bond dei mercati
emergenti segnano continuamente nuovi minimi (siamo ormai intorno ai 300
punti base, rispetto ai 1000 di tre anni fa e agli oltre 500 toccati ancora
l’anno scorso), analoga euforia traspare dai junk bond, mentre le Borse
continuano a registrare progressi, sia pure modesti, che hanno comunque
portato molti dei listini europei sui record degli ultimi quattro anni. In
assenza di particolari traumi esterni, si tratta di uno situazione che
potrebbe auto-alimentarsi, favorita dalla mancanza di sbocchi concreti per
gli investimenti nell’economia reale e dalla ricerca di rendimenti
competitivi rispetto a quelli, risibili in termini reali, offerti dalle
attività prive di rischio.

Continuiamo a credere che sui mercati azionari i
rischi al ribasso rimangano abbastanza contenuti, visto che nessuno dei due
elementi chiave su cui si fondano, la crescita degli utili, che prosegue
persino nel caso di un’Europa in completo stallo congiunturale, e i bassi
rendimenti obbligazionari sembra mostrare pericolosi segni di cedimento.
Finora semmai era il potenziale al rialzo delle Borse a non convincerci:
nemmeno ora vediamo grandi cose, ma visto che nell’immediato i bond ci
sembrano ormai arrivati, un temporaneo cambiamento di peso a favore delle
azioni potrebbe risultare opportuno. Con l’idea però di fare nuovamente
retromarcia tra qualche mese e riscoprire le obbligazioni, se, come
continuiamo a credere, la crescita globale per allora segnalerà un più
significativo rallentamento.

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