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Magistrato minacciato da Riina: “volevano darmi blindato Lince”

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PALERMO (WSI) – Un «Lince», uno di quei blindati usati dai soldati italiani in Afghanistan, Nino Di Matteo non lo aveva mai visto. E quando lunedì gliene hanno mostrato uno in fotografia ha alzato e fatto ondeggiare l’indice: «No, non se ne parla. Non posso andare in giro per Palermo, in un centro abitato, con un carro armato. Non chiedetemelo».

Un diniego cortese. Un invito all’apparato antimafia perché si rafforzi la scorta con altri sistemi. Pronto a limitare gli spostamenti allo stretto necessario. Cosciente di una accelerazione dell’allarme che circonda questo pubblico ministero protagonista del processo Stato-mafia soprattutto da venerdì scorso, quando nel carcere di Opera a Milano è stata intercettata l’ennesima minaccia del gran capo dei Corleonesi, l’ottuagenario Totò Riina.

Un riferimento esplicito del boss a un attentato da compiere anche durante un viaggio, una trasferta, in un luogo aperto al pubblico, forse un aeroporto. Quanto basta perché, dopo un vorticoso giro di contatti, domenica mattina i procuratori di Palermo e Caltanissetta, Francesco Messineo e Sergio Lari, partissero per Roma, alla volta del Viminale, incontrando nella domenica dell’Immacolata il ministro Angelino Alfano.

Mostrando le frasi decodificate di trascrizioni secretate, ma svelate al governo «in forza dell’articolo 118 del codice di procedura penale». Unica ipotesi di comunicazione prevista fra inquirenti e governo «per la prevenzione dei delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza».

Esplicito il richiamo all’ansia «per un’azione che rischierebbe di riportare indietro l’Italia di vent’anni», come ha commentato a denti stretti Lari trasferendosi quella stessa domenica dal Viminale agli studi Rai per l’intervista con Lucia Annunziata.

E non a caso ha evocato anche in tv il rischio corso nel 1994 quando il cattivo funzionamento di un telecomando salvò la vita ad almeno cento carabinieri in servizio all’Olimpico di Roma per una partita.

Altra strage programmata e sventata fuori dalla Sicilia quando forse la mafia sperava ancora di potere «trattare». Mentre adesso Riina è uno degli imputati del discusso processo sulla cosiddetta «trattativa», il dibattimento da oggi in trasferta a Milano, a pochi metri dalla cella del padrino, nell’aula bunker del carcere di Opera, per ascoltare il pentito che fece saltare Falcone a Capaci, Giovani Brusca.

Considerata un’udienza chiave del grande processo, l’appuntamento è noto da tempo e per questo risultano ancor più inquietanti le minacce confidate da Riina all’unico detenuto con cui può scambiare qualche parola, un pugliese, il boss della Sacra Corona Unita lberto Lorusso.

Agghiaccianti i riferimenti a Di Matteo: «Tanto deve venire al processo… È tutto pronto… Lo faremo in modo eclatante…». Ecco perché fino a ieri sera il pm più esposto nella trincea antimafia era incerto se partecipare all’udienza di oggi: «È un crescendo degno di quel personaggio. Mi consigliano di non andare, ma ho sempre seguito il processo, mai saltato un passaggio…».

Decisione top secret. Con un intero ufficio comunque pronto a mostrare una compattezza talvolta offuscata da polemiche interne. Cancellate nell’emergenza che impone massima solidarietà. Come si capirà stamane quando sul banco dell’accusa, accanto al procuratore aggiunto Vittorio Teresi e agli altri due pm, Del Bene e Tartaglia, siederà il capo dell’ufficio, Francesco Messineo: «Avevo deciso da tempo di partecipare, considerata l’importanza dell’interrogatorio, ma davanti a questi dichiarati propositi di Riina se la mia presenza è letta come prova di appoggio a Di Matteo ne sono lieto».

Un clima pesante fa da sfondo all’appuntamento milanese, mentre a Palermo arriva il «bomb jammer», una sorta di robot capace di neutralizzare congegni usati per azionare esplosivi. Altro dispositivo da attivare a difesa di Di Matteo e degli altri magistrati ad altissimo rischio, almeno cinque fra Palermo, Caltanissetta e Trapani, nell’area dove è ancora libero Matteo Messina Denaro, indicato da un anonimo otto mesi fa come il regista di un attentato contro Di Matteo: «Il latitante di Castelvetrano avrebbe coinvolto altri uomini d’onore, anche detenuti… E Riina, tramite il figlio, è d’accordo». Messaggio condiviso da un confidente che a luglio parlò di «15 chili di tritolo» arrivati a Palermo per uccidere «il pm della trattativa Stato-mafia». Appunto, un «crescendo» come dice Di Matteo che ad Opera vorrebbe esserci.

Il contenuto di questo articolo, pubblicato da Corriere della Sera – che ringraziamo – esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

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