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MA LE BANCHE SVIZZERE SONO DA BUTTARE?

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(WSI) – Settimana nera per le due grandi banche svizzere. Mercoledì si è tenuta l’assemblea degli azionisti di UBS, che ha sancito la «capitolazione» di Marcel Ospel, l’uomo simbolo della nuova UBS, che ha dovuto abbandonare il timone di comando dopo aver accumulato finora complessivamente 37 miliardi di franchi di perdite a causa degli investimenti nei titoli legati al mercato immobiliare americano.

Il Credit Suisse ha annunciato che contabilizzerà nel primo trimestre di quest’anno 5,3 miliardi di perdite negli investimenti in prodotti strutturati e nei finanziamenti delle operazioni di acquisizioni condotte prevalentemente dai fondi di Private Equity. Queste perdite si aggiungono alle rettifiche di valore di 3,2 miliardi già annunciate l’anno scorso, per cui il totale raggiunge finora gli 8,5 miliardi di franchi.

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Le perdite del Credit Suisse sono nettamente inferiori a quelle di UBS e non mettono in discussione la solidità dell’istituto, ma sono superiori alle aspettative. Inoltre, ed è l’aspetto più importante, non chiudono sicuramente la lista delle perdite della seconda grande banca svizzera nelle attività di finanza strutturata. Infatti il CS è ancora esposto per 20,8 miliardi nei finanziamenti per acquisizioni e per 19,3 miliardi in titoli legati ai mutui ipotecari commerciali. Il conto finale delle perdite dipenderà dall’evoluzione della crisi che non è assolutamente conclusa, nonostante la relativa fase di bonaccia di questo mese di aprile. In proposito non si può non condividere l’opinione del numero uno del Credit Suisse, Brady Dougan, che ieri ha dichiarato: «Alcuni credevano di aver visto la luce che segnava la fine del tunnel. In realtà questa luce proveniva invece dai fari di un treno che ci veniva addosso».

E il treno di cui parla Brady Dougan si è rimesso in movimento dopo una fase di relativa calma dovuta al salvataggio statale della banca d’investimento americana Bear Stearns, letto come la conferma della volontà politica di non lasciare fallire alcuna banca. Lo scopo degli interventi delle autorità monetarie (i miliardi e miliardi di inezioni di liquidità delle banche centrali) e di quelle politiche (dalle americane Fannie Mae e Freddie Mac al fondo di 100 miliardi di franchi creato dal governo britannico) è sostanzialmente quello di dare soldi buoni alle banche in cambio di titoli di valore dubbio e di vera e propria carta straccia. In pratica, lo Stato si è sostituito ad un mercato che non si fida più del sistema finanziario e in questo modo sta impedendo che la crisi si trasformi in una crisi sistemica.

Ma ciò non basta per motivi diversi. In primo luogo, la massa di titoli di dubbio valore e la vera e propria carta straccia in circolazione è tale e tanta che non si intravvede nemmeno lontanamente la fine della fase di emergenza. Basti pensare che il Fondo Monetario Internazionale ha stimato che le perdite complessive si aggireranno attorno ai 1000 miliardi di dollari e che finora il sistema finanziario ha complessivamente denunciato solo circa 300 miliardi di perdite. Siamo dunque a meno di un terzo del cammino.

In secondo luogo, la crisi si muove a cascata. Infatti, investe le società che assicuravano questi titoli (le cosiddette monolines), l’enorme mercato dei CDS (Credit Default Swap), gli altri prodotti strutturati creati su questi titoli, gli Hedge Funds che scommettevano su questi mercati. In questi casi l’intervento di salvataggio degli Stati è difficile, se non impossibile. In terzo luogo, sta venendo al pettine il nodo dei finanziamenti alle operazioni di acquisizione dei fondi Private Equity (come mettono in evidenza i dati forniti ieri dal CS). In quarto luogo, tutti questi interventi risolvono i problemi di liquidità, ma non quelli di solvibilità delle banche, che devono provvedere ad ingenti ricapitalizzazioni per mantenere i requisiti minimi di capitale imposti dalla legge.

La crisi causata dalla nuova ingegneria finanziaria è dunque tutt’altro che finita ed è destinata a riservarci ulteriori spiacevoli sorprese.

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