Società

MA IL CAPITALISMO POPOLARE
E’ DI SINISTRA?

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(WSI) – Nel dicembre scorso, il reddito personale dei cittadini americani ha fatto registrare l’aumento più grande di sempre, cioè da quando nel 1959 venne creato questo particolare indice statistico. L’incremento è stato del 3,7%. Effetto delle riduzioni fiscali? No. Di salari e stipendi? Nemmeno. A gonfiare i redditi è stato il dividendo speciale pagato da Bill Gates ai suoi azionisti. Paperone non è diventato San Francesco. E’ che Microsoft sta andando alla grande e i suoi azionisti sono milioni. Gates si è intascato la sua bella quota diventando ancor più ricco, ma i profitti sono stati spalmati su una platea amplissima.

E’ il capitalismo popolare, come lo ha chiamato Felix Rohatyn, un grande finanziere (era il capo di Lazard a New York) diventato poi ambasciatore a Parigi con Bill Clinton. E’ l’ultimo effetto della nuova rivoluzione americana. Lo scoppio della bolla speculativa del 2000 ha solo spento i bollori, ha riportato «l’esuberanza irrazionale» (definizione di Alan Greenspan) su basi di maggior razionalità.

Meglio Gates

Che cosa è successo negli anni ’90 è noto, ma troppo spesso ignorato. Una quota sempre maggiore del risparmio è andata in Borsa, passando attraverso fondi e piani pensione. Gli investitori istituzionali sono diventati così importanti da trasformarsi in arbitri dei destini proprietari e manageriali delle grandi corporation. Sono loro a licenziare gli amministratori delegati nelle public company (quelle, cioè dove non esiste un azionista di riferimento). Ma sono loro a orientare anche le scelte delle imprese in cui il fondatore o la famiglia hanno una funzione dominante (come Microsoft, Ford o Wal Mart). Gli utili scendono dal vertice alla base, un gocciolìo nelle fasi di magra, un torrente nei periodi di vacche grasse. Anche l’operaio può riscuotere la sua cedola, non solo il padrone. E spesso diventa investitore per proprio conto, acquisendo l’abitudine a una gestione attiva dei risparmi.

Tutto questo è cominciato un quarto di secolo fa. Ronald Reagan è stato il primo a capire la portata dei grandi cambiamenti nella economia e nella società americana. Bill Clinton ha favorito il compiersi e il maturarsi della Grande trasformazione. La quale non sarebbe avvenuta senza l’impatto delle tecnologie informatiche e senza l’ondata di imprese che hanno scardinato il vecchio sistema e costretto i mammuth a rinnovarsi (da Ibm a General Motors). Nel 1982 negli Usa c’erano appena 340 mutual funds con 6 milioni di azionisti. Nel 1998, al culmine del ciclo, erano 3.153 con 120 milioni di sottoscrittori, vuol dire due conti in media per ogni famiglia americana. Ad essi si aggiungono i piani 401 (k), cioè i fondi pensione aziendale, nati con una legge del 1974, ma cresciuti a razzo negli anni ’80, grazie a una politica fiscale che li ha incentivati. I computer hanno reso possibile la gestione di questo mare immenso di dati consentendo transazioni finanziarie in tempo reale su scala mondiale.

Né Colbert né Beneduce

Il meccanismo è instabile come lo è per sua natura l’economia di mercato anche prima che diventasse pienamente capitalista. Per questo ha bisogno di ammortizzatori, di regole e di arbitri. Non c’è mercato senza istituzioni di mercato, ricordavano i maestri del pensiero liberale. La lancia e lo scudo. Il modello americano è inapplicabile da noi, è ovvio. Ma non sarebbe male se nel fabbricone di Romano Prodi si facesse una riflessione a fondo su come uscire dalla sindrome dei Buddenbrook che ha colpito l’impresa familiare e dal nanismo dei distretti industriali. Senza rispolverare le parrucche dalle soffitte della storia. Né Colbert né Beneduce (con tutto il rispetto per entrambi). Meglio Bill Gates.

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