Società

LO TSUNAMI ITALIANO

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È stato uno tsunami. Che ha travolto tutto. Partiti, uomini politici, giornali, giornalisti, sondaggisti. Domenica, Eugenio Scalfari aveva scritto su «Repubblica» che non bisognava votare Berlusconi perché è (sarebbe) «un imbroglione», «un venditore». Come dire che non lo si doveva votare perché ha pochi capelli. Una ulteriore manifestazione della profondità di pensiero del Fondatore di un giornale dove non sai mai se al titolo corrisponderà poi l’articolo che c’è scritto sotto. Nelle stesse ore, milioni di italiani votavano il Cav.

Ma, domenica prossima, Scalfari, invece di ritirarsi in convento, scriverà la sua predica settimanale come se nulla fosse successo. Il «grande maestro del pensiero» – che in tutta la sua lunga vita non ne ha mai imbroccata una – tale rimarrà nella considerazione dei suoi lettori perché, in Italia, è sufficiente dirsi liberal (senza la «e» finale perché, come dicono a Torino, fa fino) e far scendere dall’alto di una supposta superiorità morale antropologica (?) quattro luoghi comuni contro gli Usa, il capitalismo, Berlusconi, la sinistra riformista che riformista non diventa mai, per passare alla storia. Mah.

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Qualche giorno prima, sul Corriere della Sera, il mio amato maestro e amico Giovanni Sartori aveva scritto un articolo di fondo per invitare al voto «disgiunto» (uno per il Senato, a un candidato, l’altro per la Camera, a un altro candidato) e provocare così il «pareggio» (almeno al Senato) fra i due e andare alla Grande coalizione. Spazzata via anche questa trovata «tecnico-politica» dallo tsunami Berlusconi.

Ha vinto il Cav. e stravinto Bossi. E adesso già si dice a sinistra – a titolo di consolazione, dopo la disastrosa coalizione prodiana – che la Lega sarà una spina nel fianco di Berlusconi, una scheggia estremista e incontrollabile. Vero? Verosimile? No, né vero – la Lega è stato l’alleato più fedele del Cav. durante i cinque anni del suo governo – né verosimile, non si vede perché dovrebbe smettere di esserlo e, soprattutto, perché non dovrebbe essere, invece, un fattore propulsivo della politica del centrodestra e della sua (timida) vocazione riformista ancora tutta da dimostrare. In realtà, la Lega è, da tempo, un partito di governo quanto gli altri e, soprattutto, la prova provata dell’indignazione del contribuente del Nord-Italia per gli sprechi di Roma e nel Sud-Italia. Non lo dico solo io, ma anche Luca Ricolfi nel suo ultimo libro («Ostaggi dello Stato», ed. Guerini e Associati) col sostegno delle cifre. Ora, la Lega vuole arrivare al Federalismo fiscale, e lo ha fatto mettere nel programma di governo. Per Federalismo fiscale si intende – dice Bossi – che almeno parte delle entrate fiscali di ciascuna Regione rimangano dove sono state prodotte e non finiscano in un calderone gestito, male, da, come dice la Lega con linguaggio non propriamente British, «Roma Ladrona». Ma, se si depura il linguaggio, il risultato è lo stesso raggiunto scientificamente da Ricolfi: uno spreco di risorse di 80 miliardi l’anno, di 20 sui 40 che costa lo Stato sociale.

È scomparsa la «Sinistra Arcobaleno», che raccoglieva Rifondazione comunista, i Comunisti italiani, i Verdi e qualche altra sigla tardo-comunista. Non ci sono più i comunisti nel Parlamento italiano. Un male? Un bene? Mah, non saprei dire. In ogni caso, in democrazia, se il popolo non vota un partito non è né bene né male. Semplicemente, vuole dire che non ci si identifica e non gli conferisce perciò un mandato di rappresentanza parlamentare. Punto.

In termini storici, a 19 anni dalla caduta del Muro di Berlino, a 17 dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, dopo anni che anche la Cina è diventata capitalista, una parte degli italiani si è accorta che il Comunismo non c’è più, è morto, sepolto sotto le macerie del Muro, che la socializzazione dei mezzi di produzione, la dittatura del proletariato, il marxismo-leninismo sono finiti nella pattumiera della Storia come avrebbe detto la stessa buonanima di Karl Marx. Ma se la sinistra alternativa è morta, anche quella riformista – per dirla con Woody Allen – non sta bene.

W Veltroni, cui pure va il merito di aver favorito il ricambio del sistema politico candidando se stesso e il Partito democratico alla guida del Paese senza la zavorra della sinistra alternativa, non ha sfondato nell’elettorato moderato, soprattutto al Nord. La frattura fra le tre Italie, quella produttiva delle regioni settentrionali, quella delle cooperative delle regioni centrali controllate dai post-comunisti, e, infine, quella assistita delle regioni meridionali. Troppo genericamente «buonista» la campagna elettorale di Veltroni, troppo leggero il personaggio rispetto al peso massimo Berlusconi. L’uno, Veltroni, a predicare «volemose bene» e a promettere soldi a tutti come Babbo Natale; l’altro, il Cav., a parlare finalmente (!) da statista responsabile, senza promettere troppo, ma esponendo un programma di cose da fare che, se realizzato, cambierebbero almeno in parte il Paese.

È la seconda volta che gli italiani offrono a Berlusconi la grande occasione storica di fare quella «rivoluzione liberale» che finora ha promesso e non realizzato. Non è un’impresa facile. Ma una terza occasione non ci sarà. Per farla, questa benedetta rivoluzione, bisognerebbe riformare l’Italia fin dalle sue fondamenta, dalla stessa Costituzione (Parte Prima) che è l’ibrido frutto del compromesso di 60 anni fa fra le «due Resistenze», quella democratica (cattolica, socialista, liberale, azionista, repubblicana) e quella totalitaria (comunista), che si erano battute contro il fascismo. L’una, quella democratica, per portare l’Italia nell’Occidente democratico-liberale; l’altra, quella totalitaria, per farne un satellite dell’Unione Sovietica.

Berlusconi ha ora l’occasione storica di dire che il lungo dopo-guerra è finito, che quel compromesso – figlio della Resistenza «al singolare», unica e unitaria – non regge più nel mondo in cui viviamo. Bisognerebbe smantellare una società ereditata dal corporativismo fascista sulla quale si sono innestati elementi istituzionali di stampo comunista. Un pasticciaccio che paralizza il Paese.

Bisognerebbe fare, innanzi tutto, una rivoluzione culturale contro i luoghi comuni, il politicamente corretto, i miti della Resistenza al singolare, della solidarietà (imposta per legge costituzionale), in una parola, contro la cultura catto-comunista che ha dominato nella scuola, nell’editoria, nei giornali, nell’università, in Parlamento per 60 anni, facendo danni disastrosi. Ce la farà il Cav.? Le intenzioni sono buone. Chi vivrà vedrà. Senza dimenticare che di buone intenzioni, in Italia, è lastricata la strada del declino del Paese.

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